un disordine ricercato

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Cambi di rotta

Il cambio di rotta e il tema del ritorno sono due perni concettuali che si intrecciano nell’ultima riflessione teorica, prima della sua recente scomparsa, di uno dei più noti e influenti intellettuali del secondo Novecento, Zygmunt Bauman. Nel 2017 a Cambridge il grande pensatore dà alle stampe Retrotopia, in cui indaga la visione, comune a gran parte della nostra società, che immagina il futuro come incerto, pieno di insanabili contraddizioni e attraversato da un potente sentimento nostalgico. Secondo il pensatore, invece, nella realtà contemporanea comincia a farsi strada anche la tendenza a concepire il passato come qualcosa che possa rappresentare l’antidoto contro una visione generale e pessimistica di un futuro visto come incubatore di pericolose insidie. Un pensiero che interpreta il cambiamento del percorso prestabilito e il ritorno quali opportunità per nuove ripartenze. 

Cambi di rotta, quindi, come riflessione sui nuovi modi di osservare l’orizzonte contemporaneo e il nostro destino secondo angolazioni in cui la storia e il nostro patrimonio culturale diventano tesori necessari per «ricomporre l’infranto», secondo le parole di Walter Benjamin scritte in Angelus Novus e citate da Bauman. La volontà è di non riproporre nessun arretramento verso esauste posizioni postmoderne, ma di aprire a singolari percorsi sperimentali dove le nostre eredità culturali possono diventare rendite di libertà: una posizione che può essere raccolta anche dai linguaggi consolidati dell’arte per dar loro nuova linfa vitale, creare installazioni che facciano riverberare l’energia propulsiva di inusuali idiomi espressivi. 

Matteo Fato, infatti, è un artista in grado di rivitalizzare la prassi della pittura attraverso un proprio codice installativo, sobrio ma allo stesso tempo eccentrico; ha la capacità di inventare spazi “sensibili” grazie ad un raffinato arazzo compositivo, orchestrato in modo mirabile. L’autore non si è fatto ingabbiare dentro sterili codici linguistici, ma ha cercato per la pittura una nuova e più fertile dimora. 

Negli anni, per alcune significative personali, ha realizzato cavalletti di diverse dimensioni, dalle forme rigorose e minimali, quali richiami evidenti della sua indagine. Rinviano alla tradizione, al classico utilizzo di uno strumento legato al linguaggio pittorico, ma, allo stesso tempo, mutano il loro ordine funzionale, diventando macchine che alterano la percezione dell’osservatore. I cavalletti ideati da Matteo Fato non sono semplici supporti ma rebus concettuali; elementi algidi, traboccanti di significati nascosti.

Tre di questi cavalletti, insieme ad alcuni dipinti, approdano a Palazzo Ducale per la personale Eresia (del) Florilegio. Il titolo, oltre ad indicare l’ultima opera inedita legata al ciclo dei (busti), esprime la volontà dell’artista di proporre un’antologia di lavori che tornano o arrivano a Urbino, città dove l’autore si è formato. Installare opere realizzate in tempi e spazi lontani nel grembo da cui tutto è nato, significa accettare la pericolosa sfida di una verifica, far sprigionare significati, energie impreviste, ma anche mostrare possibili incongruenze. Se questo è il rischio del florilegio, la sua eresia, ben venga la sfida, perché l’arte che non contempli la possibilità dell’errore è arte senza vita, banalmente pacificata.

Una grande tavolozza cosparsa di grumi materici di colori puri sovrasta un busto nell’ultimo quadro di Matteo Fato; un potente dipinto affiancato da una piccola tela sulla quale troviamo un fraseggio di segni astratti: impronte della pulitura del pennello, segni residui e speculari del raffinato, sapiente lavoro. 

I dipinti esposti a Palazzo Ducale sono contornati da cavalletti, e rimandano come un’eco lontana a un’opera cara all’autore: L’artista nel suo studio di Rembrandt. Molto spesso l’arte è un viaggio nel tempo dove il ritorno, però, non diventa semplice approdo, ma slancio per una nuova ripartenza verso rotte non ancora percorse poiché, per dirla con le parole di José Saramago, «Bisogna tornare sui passi già dati, per ripeterli, e per tracciarvi a fianco nuovi cammini».

Se Fato gioca con le dislocazioni temporali, Silvia Mariotti si concentra sul fascino ambiguo del notturno. La notte, secondo Novalis, è sospensione del tempo e dello spazio: il momento in cui si sperimentano le vibrazioni interiori e si può accedere all’ineffabile. Nel silenzio profondo che avvolge le tenebre, il mondo diurno delle apparenze cede il posto alle fascinazioni segrete colme di enigmi.

Con Tre notturni Silvia Mariotti realizza un’installazione site specific che coinvolge gran parte del perimetro dello Spazio K, assemblando sculture, fotografie, light box e neon; crea una topografia e una mappa sensoriale i cui modelli ispiratori sono il celebre San Francesco riceve le stimmate di Federico Barocci – uno dei più apprezzati “notturni” della storia dell’arte –, un arazzo fiammingo del XVI secolo, Bosco con animali esotici, ambedue conservati nelle stanze di Palazzo Ducale, e l’omonimo componimento di Fryderyk Chopin, massimo compositore del romanticismo musicale. 

All’interno della grande sala, l’artista pone il minuscolo darkbox intitolato Pioggia Lunare, il punctum da cui promana una flebile ma poetica luce che si ammanta di aerea pioggia luminosa. 

Il timbro musicale romantico che sgorga da questa installazione si ritrova nel tracciato composto da griglie ferrose disposte a pavimento. Un percorso concettuale che ingloba i Volumi notturni, serie di sculture affiancate da neon e rivestite di erbose cromie viranti verso sfumature bluastre. Sulla stessa struttura, alcune fotografie citano l’antico arazzo o immortalano una natura lussureggiante che riveste territori colpiti da eventi tragici.

La complessa architettura creata da Silvia Mariotti produce uno spaesamento nell’osservatore. Non ci sono percorsi certi da seguire, ma per trovare il filo d’Arianna bisogna affidarsi agli accordi sensibili del cuore. Nell’oscurità della notte, dove domina l’incertezza dello sguardo, si può avvertire un presagio d’infinito e sperimentare l’immersione nel mistero, nella sacralità della natura e nelle sue zone d’ombra.

L’articolata installazione della Mariotti lascia il posto alla rigorosa “ragnatela” sulla quale Virginia Mori fa approdare i suoi visionari disegni per tracciare un percorso di cartacee intuizioni oniriche. 

Pagine di libri si trasformano in onde gigantesche in procinto di sommergere nuotatrici solitarie; stanze spaziali, dagli arredi ottocenteschi ed eleganti carte da parati, ospitano astronauti dagli sguardi sperduti adagiati sotto le lenzuola; coppie dormono in scatole di fiammiferi, e fanciulle, sormontate da enormi gatti, riposano in lettini ordinati; innocenti figure possono letteralmente perdere la testa; corde in movimento per piacevoli giochi si trasformano in violenti rasoi che amputano gambe; sogni ad occhi aperti evocano donne assaltate da animali; interni enigmatici nascondono tranelli e sembrano ospitare entità nascoste in procinto di rivelarsi.

Anche guardando solo alcune opere di Virginia Mori si avverte un inquietante e affascinante mistero. 

È come essere caduti in un altro mondo, governato da un vento onirico che rende le coordinate spazio-temporali fluttuanti e traccia nuove rotte per approdare sulle sponde di un sorprendente immaginario. I racconti visivi dell’autrice si pongono in bilico tra l’accensione visionaria e la staticità ipnotica, dando vita ad un’originale amalgama composta di metamorfosi e sospensione.

In Quello che avanza l’artista raccoglie un’antologia di storici e inediti lavori, togliendoli dalla gabbia della singola cornice posta a parete. Grazie ad un raffinato e sapiente allestimento ideato da Analogia Project, li sospende su esili strutture che ospitano i disegni in modo speculare, realizzando un percorso pieno di rimandi incrociati. Si crea una sorta di labirinto filiforme in cui sogni e visioni conducono in uno spazio altro, dominato dal potere incandescente dell’immaginazione.

Per la mostra Virginia Mori propone anche nuovi disegni: frammenti di un labirinto di alte siepi dove sono appoggiati libri aperti, spuntano giovani teste, braccia, gambe, chiome femminili e figure giovanili in procinto di scavalcare. Sulla composizione domina un giardiniere composto ed elegante il quale, con la perizia di un direttore d’orchestra, sta per recidere due rametti troppo cresciuti che rompono la simmetria. 

Un modo sottile per ricordarci che la più spericolata fantasia ha bisogno di una mano sapiente per governarla senza farle perdere forza; per allontanarla dalla dimora del grottesco e condurla in quella più fertile dell’incanto.

Se Virginia Mori con segno ispirato traccia le frastagliate coordinate di un spazio dominato dalle visioni, l’intera ricerca artistica di Luca De Angelis è incentrata sulla volontà di esprimere un senso di spaesamento: la necessità di rappresentare il sentimento di smarrimento proprio di un tempo e di uno spazio in cui i punti di riferimento hanno perso la loro centralità e si sono disgregati, dissolvendo ogni possibile certezza. 

I ritratti e i paesaggi dipinti da De Angelis, sfuggiti a qualsiasi coordinata temporale, si trovano in un tempo sospeso dove l’arcaico e il futuribile sono intrecciati in modo inestricabile. I personaggi evocano qualcosa di ancestrale e alieno al tempo stesso. I luoghi emanano il profumo di un Eden trascorso, ma anche i bagliori di una catastrofe imminente o appena accaduta.

L’opera di De Angelis, profondamente radicata nello scavo espressivo di generi cardini nella storia dell’arte – il ritratto e il paesaggio –, ribalta i contenuti e i significati dei suoi soggetti per materializzare un universo evocativo e simbolico che li trascende. L’autore crea un luogo altro, dove allestisce una personale messinscena costellata di anti-eroi, di figure estratte dal quotidiano senza gloria ma con le stimmate dolorose, e per certi versi radiose, proprie dei perdenti, di coloro che hanno combattuto battaglie esistenziali anche se, invano. Ogni realismo viene rinnegato, i dettagli sono respinti da un gesto pittorico che plasma la figura e la natura senza alcun cenno di verismo. La maschera trionfa sul volto, il suo valore ancestrale regna sulla riconoscibile, univoca identità. Un modus operandi che ritroviamo intatto anche nella sua recente produzione scultorea in ceramica. Mezzibusti, figure filiformi, volti adagiati, piccole teste policrome scaturiscono da una materia instabile, abbozzata e priva di grazia, rivelando atteggiamenti contriti, sguardi stupefatti se non sbigottiti, labbra in procinto di urlare o in atteggiamenti di perenne attesa. Una platea di umili che ricorda quella composta da Medardo Rosso, il grande artista che aveva come principale interesse «far dimenticare la materia». Alla stessa maniera la ricerca di Luca De Angelis si addentra nei difficili linguaggi, definibili inattuali, come la pittura e la scultura, per lanciare una sfida agli stereotipi. Far dimenticare le materie espressive e far emergere gli interrogativi insolubili, eterni, che ogni luogo, ogni esistenza, anche la più piccola, porta con sé. 

I luoghi diventano i protagonisti dell’indagine di Simone Cametti che, nelle Grandi Cucine di Palazzo Ducale, installa una serie di lavori antologici. Il titolo Media Montagna intreccia due coordinate concettuali: ’altitudine – mille, duemila metri sul livello del mare – dove Simone Cametti sviluppa molti dei suoi lavori, e il riferimento al movimento chiamato Nuovo Mattino, nato nei primi anni Settanta attorno alla figura di Gian Piero Motti, il quale aveva cercato di diffondere un nuovo modo di intendere l’alpinismo, depurandolo «di eroismo e gloriuzza di regime» per sintonizzarlo sui più vitali concetti di libertà, gioiosa accettazione dei propri limiti, trasgressione delle regole. In tale contesto l’aggettivo “medio” diventa metafora di un luogo che, come sostiene l’autore, «non è meta o traguardo», ma un territorio dell’anima: lo spazio in cui si svolgono le sue azioni, promosso a vero strumento espressivo. La ricerca artistica di Cametti si concentra sui luoghi, ma anche sulle modalità temporali che presiedono alla costruzione e realizzazione dell’opera. I suoi progetti, infatti, si concretizzano attraverso un complesso procedimento, documentato con diversi mezzi: video, registrazione sonora, fotografia.

Sia che rinverdisca con pigmenti naturali ampie distese erbose di montagna in procinto di seccarsi, che faccia risuonare le note di antiche canzoni di Tina Allori, celebre interprete italiana degli anni Quaranta e nonna dell’autore, in lontane cave di marmo norvegesi dalle quali fu estratto il marmo per realizzare la sua lapide funeraria, o che registri il rumore di sassi lanciati sulla superficie di laghi ghiacciati, per creare il suggestivo sound con il quale accompagnare due splendide fotografie in bianco e nero, l’artista mette in campo il sofisticato concetto di durata. Affrontare viaggi per raggiungere in solitaria gli sconfinati spazi delle cave di Larvik in Norvegia, del lago Blu nel New Hampshire, o abitare, con sentito trasporto, le cime del Gran Sasso nell’Appennino centrale italiano, diventa per Cametti un agire finalizzato alla ricerca di una nuova relazione con la natura attraverso una profonda riflessione sul ruolo dell’artista. 

L’opera di Simone Cametti si compone di gesti esemplari con i quali crea un’originale riflessione sullo spazio e sul tempo, un agire performativo che non si dissolve nell’aleatorietà dell’azione ma restituisce preziosi reperti che traducono con forza la sua cristallina personalità. La durata evocata nei suoi lavori si accorda alle parole di Peter Handke composte per il Canto alla durata: «è il mio riscatto, mi lascia andare ed essere.».

L’arte di Fabrizio Cotognini si pone, invece, all’interno di un flusso misterioso, in cui immagini, frammenti iconografici concepiti come segrete reliquie, disegni ispirati da capolavori del passato, traduzioni botaniche e infiorescenze preziose si distendono su un arazzo di celebri stampe o tracciano liriche costellazioni, creando uno storyboard contaminato, anticonvenzionale.

L’autore diventa una sorta di sciamano che mescola elementi visivi emblematici di un trascorso artistico entrato nell’immaginario, inventando una personale archeologia in cui l’antico viene completamente destrutturato. In tale processo la citazione viene rinnegata con il suo sterile bagaglio nostalgico, mentre all’orizzonte Cotognini fa intravedere le singolari coordinate di una suggestiva concezione alchemica. L’artista non sceglie una pratica antiquariale, nonostante frequenti negozi di antichità in cerca di materiali e oggetti che diventano materia prima di molti suoi lavori, ma sposa una visione esoterica con la quale indaga le misteriose prospettive che regolano il mondo dominato dal segreto.

Approdando nel Palazzo Ducale di Urbino, Cotognini non poteva lasciarsi sfuggire la straordinaria occasione di confrontarsi con un celebre autore quale Paolo Uccello, e una delle sue opere capitali: il Miracolo dell’Ostia profanata, conservata in questo tempio dell’arte. Due sculture evocano i coniugi ebrei che avevano acquistato l’ostia e saranno tragicamente giustiziati insieme ai loro figli. Per rievocare la predella, che ha un andamento narrativo e formale molto caro all’artista, egli sceglie, con uno scarto concettuale, due opere tridimensionali omaggiando uno dei grandi maestri della prospettiva nella storia dell’arte. A contorno, una serie di teche monumentali e minimal ospitano una sequenza di disegni, assemblaggi grafici, schizzi su acetati sovrapposti ad immagini. Un procedere poetico costruito su contaminazioni linguistiche, ma anche su puri e rigorosi disegni di mirabile fattura, a testimonianza della preziosa ricerca di un autore colto, ammaliato dall’antico, che rivitalizza facendolo riemergere dall’oblio. 

La magia che Cotognini riesce a creare va cercata nella sua capacità di non chiudersi nel claustrofobico spazio del trascorso, piuttosto di abbracciare il multiforme e felice dominio dell’eclettismo dove le immagini risplendono a nuova vita, ricordandoci quanto sia essenziale, dinamico e prezioso il nostro passato. L’artista realizza immagini poetiche, miracolose, quasi non fossero fatte da mani umane: acheropita.

Con la mostra di Fabrizio Cotognini si è compiuta l’avventurosa navigazione partita con la personale di Matteo Fato e proseguita con Silvia Mariotti, Virginia Mori, Luca De Angelis, Simone Cametti: una serie di eventi che hanno dimostrato la vitalità della pittura, del disegno, della scultura, della fotografia, quando vengono gemmati dalla vitale complessità dell’installazione, dal sound design e da elementi luminosi come il neon. Contaminazioni che hanno delineato il mutevole, suggestivo paesaggio visivo, composto dalla rigorosa e creativa ricerca di autentici autori all’interno dello Spazio K. 

Cambi di rotta ha lanciato una sfida agli artisti: creare progetti in grado di far emergere il potente elemento energetico-culturale rappresentato da Palazzo Ducale e dal patrimonio storico ed evocativo della Galleria Nazionale delle Marche. Uno spazio dove, in un tempo glorioso, diversi saperi e personalità cosmopolite avevano trovato dimora e, dialogando in maniera inedita, erano riusciti a produrre una rivoluzione che ha attraversato il tempo: il luogo simbolico che suscita la nostalgia per una perfezione esemplare. Nostalgia che non vive di rimpianto, ma è propulsiva per «guardare avanti, per cambiare», ritrovando un tempo in cui «le speranze non sono screditate». Infatti, secondo la studiosa di Harvard, Svetlana Boym, citata da Bauman: «La nostalgia è un sentimento di perdita e spaesamento, ma è anche una storia d’amore con la propria fantasia.».

In tale ottica gli artisti invitati hanno sviluppato progetti liberamente ispirati alla grande miniera culturale e artistica offerta dai sommi autori ospitati nella Galleria Nazionale delle Marche quali Piero della Francesca, Paolo Uccello, Raffaello, o hanno affrontato il tema del ritorno come condizione primaria per osservare il punto di partenza: un luogo conosciuto per la prima volta, diverso e rivalutato. Gli autori, dopo aver viaggiato verso libere rotte senza punti cardinali e concepito nuovi idiomi espressivi, hanno scoperto innovativi territori estetici e, con occhi pieni di speranza, ci hanno mostrato la magia dei preziosi doni dell’arte che rivelano la loro superiore forza e ricchezza soltanto a chi crede nell’avventura e nella vera esplorazione.