un disordine ricercato

un disordine ricercato

Dove comincia la libertà

L’ironia, come per il dubbio, secondo la concezione cartesiana, permette al soggetto di svincolarsi dai legami dei saperi tradizionali per prefigurare nuove, aperte possibilità di ricerca. Le rigide convinzioni, alle quali possiamo rimanere ancorati come rassicuranti approdi e protetti ripari, nel soggetto ironico vengono rinnegate, sperimentando il fertile dominio delle associazioni paradossali.

Søren Kierkegaard scrive: “l’ironia è l’occhio sicuro che sa cogliere lo storto, l’assurdo, il vano dell’esistenza”, attribuendole un carattere in grado di far emergere le contraddizioni dei saperi e delle teorie definitive. Essa diventa, pertanto, una inclinazione che rifiuta ogni orizzonte interpretativo preconfezionato, una sorta di pratica decostruttiva che rimette in gioco costantemente il senso acquisito delle cose, degli oggetti, dei significati.

L’opera di Elio Marchegiani sembra porsi sotto il segno dell’ironia, ne è attraversata come una corrente carsica che si insinua costantemente dentro il suo operare, facendogli titolare una recente mostra io ironicamente io. Nella sua ricerca artistica, da sempre attenta alle emergenze della storia e alle più scottanti problematiche contemporanee, si rintraccia la volontà di rovesciare usuali prospettive con la forza sovversiva di uno sguardo attento a cogliere testi nascosti e a ribaltare la stanca ripetizione delle forme.

Elio Marchegiani è un funambolo dell’arte che fa convivere in modo inusuale autobiografia e attualità; educata, paziente manualità e fulminea intuizione; sofisticata tecnologia e antiche tecniche espressive; invenzioni spaziali e innovative prassi scultoree; rigorose composizioni analitiche e spiazzanti interventi concettuali. Nessun linguaggio dell’arte gli èestraneo: la pittura, la scultura, l’installazione, la performance, la projectual-art, l’arte cinetica, il disegno. Tutto ciò non lo fa incagliare nelle secche dell’eclettismo, ma lo rende un artista raro, capace di padroneggiare diversi linguaggi e di mantenere, al contempo, un singolare rigore, frutto dell’imperativo, più volte dichiarato, “fare per far pensare”.

Dalla fine degli anni Cinquanta e per tutto il decennio successivo, Marchegiani si muove in modo tentacolare indagando la pratica pittorica, le diverse modalità espressive della superficie e l’arte cinetica. All’inizio egli affronta, attraverso un linguaggio pittorico informale e materico, termini quali ‘costruzione’ e ‘struttura’, legati alla sua realtà biografica: il dopoguerra vissuto a Livorno. Nei primi anni Sessanta la sua ricerca introduce uno scarto e si riveste di preziose lamine d’oro e argento: simboli espliciti del denaro, del benessere, ma anche della speculazione legata al nascente boom economico internazionale. La coerente sperimentazione e le sensibili antenne dell’artista, anche in sintonia con le coeve sperimentazioni del Nouveau Réalisme, fanno approdare sulle tele dorate, oggetti e materiali disparati. Le opere diventano quadri-rebus, ma con una cifra particolare e anticipatrice: Arabico, del 1963 (di sorprendente attualità), e altri lavori costellati di varie serrature, battenti, chiavi – in alcuni casi inutili e inservibili – chiavistelli e piccole catene che collegano immagini erotiche. Marchegiani crea assemblaggi che esprimono, come da lui stesso affermato, un senso di chiusura, di alienazione, di incomunicabilità proprie di un potere cieco basato sull’egoismo dilagante. Le opere diventano premonizioni della realtà attuale, elaborate in modo paradossale poiché nulla di drammatico sembra scaturire da superfici rivestite di oro prezioso in dialogo con oggetti rugginosi e antichi: raffinate composizioni che rivelano, a occhi attenti, dolorosi drammi esistenziali.

Il sarcasmo regna sovrano nella serie di ‘cerniere’, simboli di sessualità ma anche di sfida verso le ricerche del movimento spazialista, come in Cerniera lampo – omaggio oltraggio a Lucio Fontana del 1964. Protagonista del lavoro è una icona del cinema del periodo, Marilù Tolo, e nel collage creato, leggiamo in un frammento di giornale: “Per lei il Boom èappena cominciato, tre nuovi film l’aspettano, produttori e registi se la contendono”. L’opera, oltre a rappresentare una provocatoria sfida rivolta ad un artista, diventa anche una sottile riflessione sul crescente ruolo dello star system e sugli ambigui rapporti intercorsi tra attrici, registi e produttori. In Marchegiani ogni lavoro è una complessa ‘macchina’ di senso che produce molteplici significati. Diversi livelli di lettura si confrontano in Progetto di una lapide luminosa a James Bond del 1965, ironico omaggio ad un eroe esemplare considerato, per convenzione, immune da ogni sconfitta e forse immortale; opera anfibia, posta tra pittura e scultura che fa della lapide, come per le ‘cerniere’, lo spazio-trappola dove far collidere i concetti di interno e di esterno in modo inedito, anche attraverso innesti luminosi.

La seconda metà degli anni Sessanta, infatti, è caratterizzata dalla sperimentazione con la luce e le cellule fotoelettriche, e dalla creazione di macchine ottiche, cinetiche, di particolare complessità, Deus ex machina – Occhio di DioVenus,Progetto MinervaProgetto Mercury, definite con raffinata intuizione da Silvano Bussotti “arte recentissima e immediatamente futura”.

Alla fine del decennio, e in uno spazio che ha segnato la storia dell’arte contemporanea, la Galleria Apollinaire di Milano, Marchegiani realizza una provocatoria installazione, le 9000 mosche vive con la quale lancia un monito sulla fragilitàumana e sul rischio di un possibile contagio diffuso su scala mondiale da un piccolo insetto, anticipando problematiche proprie dell’attuale società globalizzata. Con questa installazione inizia una serie di sperimentazioni di eventi performativi, Il ciecoIl sedicente, che ripropongono con linguaggi diversi i temi fondanti del suo operare artistico: l’ambiguo ruolo del potere e la sua capacità pervasiva, le mutazioni del sistema artistico e la sua pericolosa volontà di manipolare l’operatore estetico. Questioni che, insieme all’interrogazione sul fondamentale valore dell’arte, ritroveremo in modo costante nella rigorosa ricerca di Marchegiani.

Parallelamente egli non smette di indagare il tema della superficie, realizzando lavori nei quali predominano l’utilizzo dei puri materiali che diventano, debitamente intelaiati, opere, come le Gomme: vibranti supporti dove il tempo lascia tracce che memorizzano l’inevitabile trascorso. Gli intonaci, invece, richiedono una sapiente e lenta manipolazione da parte dell’artista, che ritrova l’artigianalità sapiente del fare; una pratica immersiva con la quale recupera l’operatività di stampo rinascimentale. Ma ancora una volta Marchegiani ribalta le regole, facendo approdare su questo antico supporto, grammature di colore di stampo minimalista. Un grado zero del segno, aste di fredda e calcolata scansione, dai profondi riflessi analitici che richiamano nelle cromie, come in un ossimoro, la magistrale lezione di Piero della Francesca. Le grammature di colore si iscrivono anche su un altro supporto, la lavagna, e diventano una cifra distintiva nella sua produzione artistica dagli anni Settanta fino ai nostri giorni.

L’artista utilizza i materiali, intonaco e lavagna, in modo sempre nuovo. Un esempio è La grande scacchiera del 1977, in cui plurimi significati precipitano in un’opera di assoluto rigore formale. 

Gli anni Ottanta, preceduti dalla serie di ‘specchi in pelle’, vedono Marchegiani sondare, all’interno della sua inesausta ricerca sul supporto intonaco, un nuovo linguaggio espressivo: la sinopia. Il disegno preparatorio eseguito, soprattutto in ambito rinascimentale, con l’antica terra rossa di Sinope, viene utilizzato dall’artista come un grimaldello con il quale scardinare le facili illusioni della pittura figurativa che imperversava in quegli anni. Egli rinnega qualsiasi elemento citazionista e fa del disegno una sorta di medium per evocare uno spazio atemporale abitato da presenze che appaiono dalla polvere rossastra. Il rosso della sinopia diventa un filtro con il quale il disegno traccia le coordinate di una narrazione fatta di visioni e memorie autobiografiche, come nell’unico paesaggio realizzato La Carbonaia, ricordo delle lotte partigiane. 

Alla fine del decennio la sinopia si trasferirà anche su lavagne di grandi dimensioni per alcuni ritratti esemplari quali Marcel Duchamp, Pablo Picasso, Albert Einstein, Oscar Wilde, figure di riferimento imprescindibili per la sua arte. I ritratti confluiranno insieme agli assemblaggi di oggetti, elementi architettonici, nella sezione Anticamera della mostra romana Fare per far pensare nel 1990. La sezione testimonia, ancora una volta, la capacità dell’artista di trattare lo spazio facendo risuonare armonie polifoniche dall’accostamento di opere cariche di significati simbolici. Tra le altre ricordiamo Luna in cui due elementi d’ardesia, rigorosi nella loro scansione formale, vengono virtualmente legati da due piedi in porcellana di scuola napoletana. L’autore evoca il secolo dei lumi, della ragione, del progresso che permetteranno all’uomo di arrivare a passeggiare su uno dei luoghi dell’immaginario fantastico. Con Luna Marchegiani ci invita a riflettere su tre secoli di storia e sulla dirompente forza del progresso, senza nessuna retorica, costruendo un intrigante racconto composto di pochi, calibrati elementi: una magia che riesce solo ad autori di raffinata sensibilità.

Dagli anni Novanta fino al periodo contemporaneo, definito dall’artista The new vitality, il suo progetto si è arricchito costantemente pur rimanendo dentro rigorose matrici. Per lui la vitalità è “una nuova forza che si carica delle esperienze vissute, atte a sostenere ancora la linea di produzione di quelle idee mai accantonate, anzi sempre rivisitate mentalmente”. Negli ultimi venticinque anni, infatti, Marchegiani ha continuato a scandagliare la capacità evocativa di oggetti e reperti assemblati, soprattutto se collocati su supporti che diventano spazi d’accoglienza, solcati da scritte spiazzanti; ha infuso rinnovata energia alle grammature, facendole dialogare con le preziose iridescenze dei cristalli; ha inaugurato nuove prospettive scultoree utilizzando in maniera personale la struttura della colonna, gemmata con elementi inattesi. Il suo indomito spirito creativo ci ha regalato porte dalle serrature incandescenti; sedie rivestite di rosa cipria per evocare il sadismo amoroso della Marchesa di Merteuille; mandibole di squali ricordandoci che, forse, non è più il caso di ridere; sfere trasparenti sorrette da teschi, simbolo delle ideologie quali bolle di sapone destinate a scomparire al primo alito. Un continuo work in progress, titolo anche del recente lavoro iniziato nel 2000 e non ancora concluso con il quale l’artista intende narrare la fine della storia sul nostro pianeta. 

Un tassello significativo di questo de profundis annunciato è l’installazione Future Past del 2016. Tredici scimmie di bianca materia sono in piedi e, con fare minaccioso, brandiscono una clava di ulivo. Un’altra siede su un masso e tiene tra le mani una selce lavorata, appuntita, trasformata in arma. A parete una raffinata superficie, marchio di ‘fabbrica’ dell’artista, ospita la scritta, Future Past, creata con una serie di selci collezionate nel tempo. Ecco un altro rebus concepito dalla mente in un certo senso diabolica di Marchegiani. Le scimmie bianche sono una metafora esplicita degli uomini che spesso venivano così chiamati. La clava di ulivo è una intuizione sorprendente e ci ricorda, con la forza dirompente dell’ironia, quante siano state le guerre, gli stermini, le violenze perpetrate in nome della pace. Basti pensare, come atroce esempio, alla straziante situazione siriana: una delle tante ferite della storia contemporanea che non sarà facile rimarginare. L’artista vuole ricordarci quanto il nostro futuro sia incerto, osservando il triste presente costellato di guerre, minacce atomiche, respingimenti, feroci atti terroristici. Sembra dirci che un futuro privo di speranza è solo il drammatico riflesso di un oscuro passato.

Anche con questa recente opera Elio Marchegiani conferma di essere un autore non imbrigliato dentro schemi preconfezionati e per questo inclassificabile, caratteristica particolarmente positiva in un tempo in cui la globalizzazione tende a uniformare gli stili, i prodotti e persino le esistenze. Nei suoi lavori aleggia lo spirito sovversivo dell’ironia che supera la bonaria accondiscendenza del sorriso e diventa un demone. L’ironia si trasforma in una superiore forma di saggezza, l’antidoto contro il disgusto provocato dalla ripetitività delle forme e la pratica che rovescia ogni modello interpretativo prefissato. È la coscienza critica che denuncia l’idolatria dei dati, i quali sono solo una parte della sfaccettata complessità del reale. L’ironia è il prezioso strumento con il quale Elio Marchegiani ha ammantato di sconfinate ricchezze le sue creazioni e attraversato indenne le spinose frontiere degli idiomi. Spirito libero e rigoroso artista, sembra aver fatto sue le parole di Victor Hugo: “È dall’ironia che comincia la libertà”.