un disordine ricercato

un disordine ricercato

Ho fiducia nella mia fantasia

Una storia di slanci, viaggi, incontri

In occasione della pubblicazione del catalogo per la personale presso la Galleria Sandri di Venezia nel 1950, Guido Montauti scrive: «È per bisogno fortemente avvertito che tratto la figura umana, senza che mi pesi troppo addosso il riboccante bagaglio culturalistico il quale – mai come oggi – ha elargito leccornia a tutto il mondo. Ho fiducia nella mia fantasia e nel mio sprezzante mestiere per puntare verso una introduzione primigenia di elementi che mi dà certezza di approdo, schivo di eclettismo».

Una dichiarazione esemplare di poetica nella quale afferma di volersi scrollare, o far pesare il minimo necessario, ogni orpello “culturalistico” che potrebbe soffocare una vocazione votata alla ricerca di uno stile autentico che, nel 1952 in Francia sulla rivista «Combat», verrà segnalato come prezioso elemento «che senza dubbio non mancherà di sorprendere».

L’architrave strutturale della sua ricerca, ormai nella piena maturità espressiva, è il perentorio rimando alla forza propulsiva della sua fantasia unita allo “sprezzante mestiere”, quali elementi cardine per affrontare il personale viaggio nell’arte dove, sullo sfondo, vede stagliarsi il faro di “una introduzione primigenia di elementi” da inseguire con rigore e intransigenza per raggiungere un luogo in grado di offrire un approdo certo. 

Per Montauti la fantasia, lo sprezzante mestiere, il rigore di una identità stilistica non compromessa, la devozione verso la fede laica dell’arte, che avrebbe potuto ammettere l’illusione ma non la bugia, sono comandamenti non negoziabili; la sincera aderenza ad una visione dell’artista impegnato nella titanica avventura di evocare un tempo delle origini dove contano il temperamento, l’audacia, insieme alla disciplina della pratica costante. 

Ma chi era Guido Montauti, verso la fine degli anni Quaranta?

Ancora una volta ci viene in aiuto il pittore con una sintetica autobiografia di poche righe pubblicata nel catalogo di una precedente personale presso la Galleria Sandri nel 1948 nel quale dichiara di essere «nato nel 1918 in un piccolo paese ai piedi del Gran Sasso» e afferma: «la prima volta che vidi un quadro iniziai a dipingere». Ricorda come per molti anni la vita militare lo porterà «a vagare» per l’Europa, a combattere in Grecia e in Francia dove, evaso da un campo di prigionia, entra nei maquis, il movimento di resistenza e liberazione francese. Sostiene che gli fu possibile dipingere in Macedonia e Lorena e, non potendo raggiungere Parigi, nel dopoguerra fa ritorno al suo Abruzzo dove continua a dedicarsi alla pittura per tre febbrili anni.

Montauti vive la fanciullezza in una sorta di Eden, quale poteva essere Pietracamela nel 1918 con i suoi pochi abitanti e un paesaggio montano di incontaminata bellezza. Quindi la rivelazione dell’arte e della pittura, l’avventura bellica che lo fa perigliosamente viaggiare per l’Europa sconvolta, il suo slancio verso la pratica del disegno e dell’acquerello che lo porta a risultati di assoluto livello. 

Infatti, nel 1947 Montauti partecipa al Premio Nazionale di Disegno Diomira, e viene selezionato per la mostra dall’autorevole giuria la quale annoverava tra i suoi membri anche gli artisti Domenico Cantatore e Giacomo Manzù, insieme ai critici Costantino Baroni e Fernanda Wittgens. Il suo disegno, Ragazzo seduto, viene pubblicato in catalogo e accompagnato da un lusinghiero giudizio che recita: «la sua è pittura di pensiero, intenta e come trasognata». Da segnalare che nella mostra compaiono, insieme a Montauti, compagni di avventura che daranno una impronta rilevante alla pittura italiana del secondo dopoguerra, Arnaldo Ciarrocchi, Giannetto Fieschi, Gianfranco Ferroni, Luciano Miori, Ernesto Treccani.

Il significativo riconoscimento anticipa le mostre citate della Galleria Sandri nel 1948 e 1950 con le quali Montauti si afferma come una vera sorpresa nel panorama artistico italiano per la potenza “sanguigna” della sua pittura romantica ed espressionista, evidente in opere quali La colazione nel bosco, Eva e lo spauracchio, ma allo stesso tempo anche densa di afflato poetico in Il poeta in montagna, Donna che coglie i fiori

A sostenerlo con i loro testi in catalogo ci sono degli artisti Gastone Breddo, Leone Minassian, e Remo Brindisi. Beddo si rivolge all’artista con un consiglio: «Se una cosa ci sta a cuore di ripetere amichevolmente, da pittore a pittore, potrebbe essere una preghiera di attenersi con rigore a questa sua natura e di collaborare con essa, affinando tutti i mezzi che sono atti a rivelarla e a darle un definitivo aspetto che serva dunque agli uomini». Chiede all’artista di abbandonarsi alla sua personale ispirazione e di invocare uno stile che «sia diretto all’uomo, l’aiuti a vivere, col suo dono ineffabile di sostanza poetica». Poesia che viene richiamata da Minassian, il quale chiude il suo intervento sottolineando come l’artista, «oltre la buona qualità della sua pittura, ha varcato le soglie del Bello, cioè della poesia».

Remo Brindisi, due anni dopo, pone l’accento sulla modernità di Montauti e sulla sua mancanza di «ogni preoccupazione culturale»; una posizione che permette al pittore di raggiungere un nuovo traguardo con «l’abbandono del grottesco, dell’orrido e una maggiore consapevolezza di unità, perché non c’è figurativo o non figurativo che tenga in arte. L’unità e non la unilateralità della visione è quello che conta». Una dichiarazione che l’artista, «scevro di eclettismo» quale si definiva, avrebbe sottoscritto con ardore, nel momento in cui iniziava a declinare la gestualità di impeto espressionista in un linguaggio più misurato, dove le forme tendevano a solidificarsi esplorando la via verso la tridimensione.

Il 1950 è per Guido Montauti un anno capitale con la personale veneziana presentata da Brindisi, l’invito alla XXV Biennale di Venezia, la riflessione critica di Valerio Mariani pubblicata sulla prima pagina de «La Fiera Letteraria». Quest’ultima, diretta dal poeta Vincenzo Cardarelli con un comitato di redazione composto da Giuseppe Ungaretti, Emilio Cecchi, Gianfranco Contini e Alberto Savinio nel comitato direttivo, è in quegli anni una rivista estetico-letteraria di riferimento nel panorama italiano. Per Guido Montauti essere pubblicato in prima pagina su «La Fiera Letteraria», rappresenta l’ufficiale consacrazione. Infatti lo storico dell’arte e accademico Valerio Mariani, autore dell’articolo, rintraccia nell’opera dell’artista una «prepotente energia espressiva», «l’urgenza e la perentorietà d’un linguaggio che si manifesta da una reale esigenza figurativa», “risonanze” di Ensor, Chagall, Goya.

Un anno più tardi sulla stessa rivista compare un articolo a firma di Virgilio Guidi, il quale mette l’accento sull’evoluzione della sua ricerca, inscritta all’interno di «una purificazione, una nudità geologica; maggiore distanza prospettica fra il pittore e le cose che è poi maggiore rapporto morale» e subito dopo, riferendosi all’artista, sostiene: «mantiene intatta una certa forza primitiva, la fedeltà allo spirito dei suoi luoghi, senza essere un pittore del luogo, senza attardarsi in arie regionali».

Virgilio Guidi pone l’opera di Guido Montauti in un vasto orizzonte che travalica i confini appartati del suo luogo di nascita o dell’intero Abruzzo, per scoprire gli accenti universali «di un mondo di elementi essenziali, di architetture naturali».

Una riflessione a questo punto sembra doverosa. I fertili, appassionanti anni della carriera espositiva di Montauti alla fine degli anni Quaranta e inizio anni Cinquanta in Italia non sono testimoniati da critici d’arte, a parte l’emblematica figura di Valerio Mariani, ma da artisti. Tutto ciò non è scontato nel sistema dell’arte e, in tal caso, segnala una sorta di codice di una civiltà perduta in cui un giovane artista può essere sostenuto con entusiasmo e attenzione da autori, pittori di primo piano. Vicinanza autentica che sa prescindere dalla comune condivisione di codici linguistici e formali. Infatti, Virgilio Guidi nei primi anni Cinquanta – quando scrive, con vivo interesse, che Montauti adotta «una narrazione rapida, arguta, malinconica, affollata di desolazione, odore di erbe e di tessuti» – realizza un capolavoro di equilibrio formale, oggi esposto al Museo del Novecento di Firenze, Essenzialità del mare, dove astrazione e figurazione sfrangiano i loro limiti espressivi verso un minimalismo lirico, colmo d’incanto. Nulla di più lontano dalla poetica espressiva di Montauti, ma ciò non impedisce a Guidi, dimostrando una libertà di giudizio esemplare, di rivolgergli sentite parole di apprezzamento, ricordando come «i mezzi della pittura e il concetto dell’arte compiono la strada insieme».

Il periodo “veneziano” di Montauti è sorprendente sotto diversi aspetti, tra i quali la forza vitale emanata dal felice rapporto con un cenacolo di artisti a lui vicini che rappresenta un momento, forse inedito, nel panorama dell’arte di quegli anni; la testimonianza di una fiducia verso lo spirito vitale della gioventù, invitata a percorrere instancabilmente i sentieri anche accidentati, propri di ogni vocazione.

Un viatico esemplare per il nuovo viaggio intrapreso alla volta di Milano nel 1951 con la personale presso la Galleria San Fedele, centro nevralgico per l’arte italiana del primo dopoguerra. E, soprattutto, l’inizio dell’avventura a Parigi per un decennio. Firma un contratto con la Galerie Art Vivant, realizza la mostra nel 1952 in galleria e trova il supporto del collezionista e mecenate Salvatore Di Giuseppe. Guido Montauti si trasferisce a Montparnasse ed inizia una nuova vita. Conosce Jean Dubuffet e Sebastian Matta, due artisti che hanno attraversato con la loro opera gli angusti varchi di una visione ancorata al mero dato razionale per scavare nel magma ribollente della devianza e dell’onirico. 

In questi anni Montauti si erge a simbolo di figura artistica “vergine”, assimilabile al Doganiere Rousseau venuto dalle montagne; un artista “di afflato epico” intento a rappresentare un mondo ancestrale dominato da figure scultoree, paesaggi rocciosi, animali pervasi da una solidità megalitica, tradotti con colori che evitano ogni contrasto tonale per accordarsi ad una gamma cromatica essenziale, purificata.

La ricerca espressiva di Montauti in terra francese trova un’ulteriore conferma con la personale tenuta nel 1955 presso la Galerie Creuze che porta il nome dell’artista nelle principali strade di Parigi, come testimoniano le fotografie del tempo scattate dallo studio Lazzari. L’autore dopo pochi anni è già pronto ad affrontare una nuova sfida figurale, definita “spaziale”, in cui domina la nuda essenzialità e una esplorazione tonale di rara poesia, come nella Casa tra le rocce del 1962.

Nei primi anni Sessanta le Edizioni Italia Francia editano una monografia dedicata ai suoi disegni per la cura di Maximilien Daudet. Ecco emergere figure dalle anatomie fluide, distorte e dai volti urlanti; membra scolpite, ma allo stesso tempo danzanti come fossero attraversate da una furia impetuosa. Tra i disegni del periodo, un piccolo capolavoro, La cavallina storna, omaggio al poeta Giovanni Pascoli ed emblema dell’umano dolore. L’espressione della cavalla, che osserva con occhio apparentemente cieco il corpo senza vita di «colui che non ritorna», ad una visione attenta, come in un prodigio, esprime pietà e un sentimento di perdita irredimibile. 

La ricerca di Montauti sul segno si concentra con assoluto rigore anche sul paesaggio, riducendo gli interventi a pochi tratti in grado di descrivere l’essenziale senza alcun ornamento. Lavori che desteranno l’apprezzamento di Giorgio Morandi, il quale gli indirizza nel 1961 una lettera in cui esprime vivo interesse.

L’inizio degli anni Sessanta coincide anche con la sua ultima personale parigina e il ritorno in Italia e nell’amato Abruzzo. Nel suo habitat Montauti affronta un nuovo capitolo della sua instancabile ricerca. Assieme a tre giovanissimi artisti fonda il Pastore Bianco e si lancia con rinnovato impeto in una nuova avventura edificata sul principio dell’espressività partecipata frutto della condivisione, una pratica innovativa e ancora oggi di stretta attualità. Il gruppo realizza dipinti di diverso formato, anche monumentali, e tra il 1963 e il 1964, in anticipo su alcuni movimenti artistici successivi, opere in situ: le pitture parietali presso le Grotte di Segaturo a Pietracamela, paese natale dell’artista. Le pitture, incastonate dentro antiche grotte o distese sulla superficie di solide rocce, offrono allo spettatore una sorta di epifania visiva, quasi che le figure e gli animali dipinti fossero apparizioni fantasmatiche venute da un tempo immemore a ricordarci il valore insostituibile dell’uomo e delle cose del mondo.

L’esperienza de il Pastore Bianco si conclude alla fine degli anni Sessanta, ma Montauti è sempre pronto a ripartire verso nuove ricerche espressive le quali aprono, secondo Nerio Rosa: «ad una trasversalità emblematica che preannuncia il Postmoderno». Di questo nuovo inizio è testimonianza la serie di preziosi ritratti scaturiti da una pennellata felice e libera, intrisa di accenti coloristici sapientemente dosati e allo stesso tempo espressione di una modernità anticipatrice come nella Donna di Pietracamela, Uomo che fuma, e Il “Giocondo”.

Dagli anni Settanta, oltre ai ritratti, è il paesaggio il soggetto prediletto di Montauti, il quale esplora senza risparmio rocce, prati, fiori, vegetazione, cespugli, spingendo la sua ricerca creativa verso una de-figurazione che non abdica all’informale, ma descrive una natura dai colori sgargianti, esplosivi, piegata dal soffio vitale del vento. Opere che rimandano a Mondrian, omaggiano Paul Klee e indagano lo spazio compositivo della complessità con una forza gestuale potente e fibrillante. Parallelamente Montauti si dedica ad una serie di lavori incentrati sul colore bianco che definisce «una rivelazione»; dipinti costruiti sul concetto di rarefazione, sulla progressiva dissoluzione del colore, librato nello spazio in minuscoli frammenti coriandolari. Una felice tecnica espressiva che rimanda ai piccoli oli su tavola, poetici lavori composti da minuscoli tocchi di pennello, riportati da Guido Montauti alla fine dell’esperienza di soldato in guerra. Un evento drammatico che non era riuscito comunque a spegnere, a sedare la sua inesausta febbre espressiva. 

Gli anni Settanta sono per l’artista un periodo di personale isolamento dal sistema dell’arte, ma anche denso di novità. La principale è l’aver accettato, dopo un momento di iniziale ritrosia, di insegnare nel liceo artistico che oggi è a lui intitolato, a Teramo, sua città di adozione. L’invito all’insegnamento da parte di Nerio Rosa, amico e attento critico di Montauti, gli permette di mostrare un altro lato della sua sfaccettata personalità. I colleghi lo ricordano sempre puntuale, disponibile verso tutti i giovani allievi, soprattutto quelli talentuosi che non vogliono seguire modelli standardizzati, ma si abbandonano a sperimentazioni ardite.

Alcuni lo ricordano pieno di volumi presi dalla biblioteca del liceo in procinto di mostrare opere di autori amati, soprattutto El Greco, George Rouault, Hans Hartung e Ben Shahn. Artisti le cui opere possiamo ritrovare come “risonanze” nella produzione artistica e nella personalità di Montauti: El Greco, per le sue anatomie allungate, il carisma, il coraggio e l’intransigente carattere; Rouault, per il suo essere artista appartato, anticlassico, le cui figure sono contornate da una linea scura come in molti ritratti creati da Montauti; Hartung, per la gestualità, scevra da ogni accademismo. La sorpresa è Ben Shahn, autore impegnato nel sociale e rivoluzionario, che dimostra quanto sia sofisticata la cultura artistica di Montauti, docente generoso, capace di far apprezzare artisti conosciuti solo da una ristretta cerchia di estimatori.

Nonostante l’opera di Montauti sia stata studiata da una serie di critici di riconosciuta competenza, rimane, secondo una giusta riflessione di Enrico Crispolti, un caso unico. Non un enigma, ma un artista in fuga da tutte le regole al quale Ferruccio Ferrazzi, docente di decorazione pittorica presso l’Accademia di Belle Arti di Roma aveva fatto recapitare, nei primi anni formativi, da un suo amico, Luigi Muzii, un messaggio che si può definire profetico: «è condannato a fare il pittore». Questa conferma di valore e una insopprimibile urgenza creativa, concepita anche come condanna, viene tramutata in vitale passione da un uomo ricco d’immaginazione che riponeva fiducia nella sua fantasia.

James Hillman, citando Plotino, in un recente libro dichiara che «l’artefice di un’immagine, nel crearla, non deve gettare lo sguardo su alcun modello sensibile, ma immaginare».

Montauti è un artista che ha rinnegato ogni modello sensibile per creare opere esemplari con la tenacia e la forza proprie degli uomini nati in montagna. Un luogo poeticamente descritto da Mario Rigoni Stern nell’introduzione al volume La Montagna di Jules Michelet: «Castagni, faggi, querce, betulle, lecci, abeti, larici, pini montani; e poi, su, i fiori dell’alta montagna che hanno vita breve e per questo colori unici e profumi intensi.»Guido Montauti è stato un artista di rara forza immaginativa che dagli Appennini ha viaggiato con fervore e slancio verso mete desiderate, incontrato figure esemplari, lasciando in eredità un prezioso dono: opere dai colori unici e profumi intensi.