un disordine ricercato

un disordine ricercato

Figurabile

Nel 1993 le opere di Francis Bacon approdarono alla Biennale di Venezia in una memorabile mostra al Museo Correr. I quadri, osservati nel loro insieme, conducevano lo spettatore dentro un paesaggio di sorprendente fascinazione dove la figura regnava sovrana. Alcuni celebri trittici, per desiderio dell’artista, erano stati incorniciati con il vetro e riflettevano l’osservatore proiettandolo dentro l’universo baconiano. Figure pittoriche e immagini riflesse intrecciavano un profondo dialogo, e il sottile scarto concettuale che si veniva a produrre trasformava l’osservazione in un’epifania dello sguardo. La mostra, intitolata Figurabile, celebrava il grande autore inglese e la sua indagine sulla figura umana, approdata a vertici inarrivabili nello scandaglio della tormentata identità dell’uomo. Achille Bonito Oliva sottolineava in catalogo come la sua opera fosse “un caso classico di realismo concettuale, realizzato con i mezzi tradizionali della pittura” e come la volontà trasfigurante dell’artista riuscisse “a conservare nel dominio formale dell’immagine la capacità intatta dell’arte classica di comunicare il valore definitivo della condizione del nostro presente”. La riflessione critica legava il linguaggio della figurazione e la sua aderenza al reale con una pratica artistica di forte valenza concettuale. Questo problematico intreccio nella ricerca creativa contemporanea ha assunto un valore centrale per gli artisti che indagano la figura attraverso le molteplici declinazioni del codice figurativo e non cadono nell’insidiosa trappola del realismo descrittivo. 

Restando in ambito pittorico, il rigoroso studio incentrato sulla fisicità e sul ritratto è stato fondamentale durante il Novecento anche per Lucian Freud, Balthus e, recentemente, è diventato esemplare per Marlene Dumas, Jenny Saville e Margherita Manzelli, solo per citare alcuni emblematici autori. Il tema è stato sviluppato, inoltre, su un territorio più articolato, utilizzando mezzi espressivi eterogenei come fotografia, video, scultura, performance, disegno, collage, cinema, in linea con l’estetica attuale. Autori come Robert Mapplethorpe, Marina Abramovic, Matthew Barney, Marc Quinn, Cindy Sherman hanno sondato, tra gli altri, le caleidoscopiche sfaccettature della rappresentazione dell’uomo per esprimere nuove identità. Se con Bacon il termine figurabile ha rappresentato la tensione insopprimibile che lacera le forme in una torsione spasmodica contro ogni “compostezza dell’arte”, il suo significato etimologico esprime, invece, qualcosa che si può immaginare o rappresentare tramite una figura. Sarà quindi la volontà immaginativa, unita alla capacità di plasmare forme non ingabbiate negli stereotipi che contaminano le iconografie nell’universo globalizzato, la principale risorsa dell’arte per esprimere la multiforme fisicità dell’individuo contemporaneo. 

Figurabile.01 vuole presentare una prima ricognizione della ricerca prodotta da giovani artisti italiani che hanno scelto il linguaggio della figurazione e il tema della figura umana come uno dei principali terreni d’indagine. Un’esplorazione che affronta diversi idiomi espressivi e genera molteplici esiti formali, testimoniando l’eloquente ricchezza di un soggetto che ha attraversato la storia e ha espresso le infinite modulazioni dell’io. L’evidenza dell’immagine fotografica, il duttile vocabolario formale della pittura, la rinnovata vitalità del disegno e del collage, l’innovativo codice dell’azione performativa e del video, la qualità comunicativa della grafica diventano tecniche malleabili per definire i differenti approcci concettuali che traducono visioni diverse ma complementari. 

Paola Angelini indaga con rigore le pratiche della pittura e del disegno facendone strumenti per un’investigazione dalla potente gestualità grafica, creando una sorta di tempestosa tessitura formale in cui sembra risuonare l’eco singolare delle essenze. In alcune opere la potenza tellurica del segno tende a richiamare la turbolenta lezione dell’espressionismo nordico, in altre la superficie pittorica si distende come in un’annebbiata visione di più silenti cromie. Il suo archivio personale, fatto di foto e antiche cartoline, diventa un database che Paola Angelini rivitalizza attraverso la pratica riflessiva della pittura e la stenografica verità del disegno dal vero. L’artista riesce a restituire alla figurazione la nobile ricerca delle entità nascoste, rinnegata dall’illusoria iperproduzione visiva contemporanea. Le sue installazioni, grandi opere pittoriche costellate da disegni e fogli su cui sono trascritti veloci appunti visivi, diventano un puzzle di tessere dove l’uomo e il mondo della natura tentano un sottile dialogo per ricongiungersi in uno spazio concepito come un caleidoscopico mosaico di rimandi sparsi. 

Se Paola Angelini attinge al proprio archivio personale, Giorgio Pignotti si rivolge agli schedari della polizia criminale, alla fotografia giudiziaria americana degli anni Quaranta che congela l’identità dentro l’asettica e spersonalizzante numerazione progressiva. Uno studio incentrato su individui che, avendo scelto il crimine, vengono ritratti da un mezzo identificativo raggelante dove la frontalità ravvicinata non lascia scampo. Giorgio Pignotti, attraverso una trama pittorica di notevole libertà plastica e senza rinunciare alla documentazione realistica, ingaggia un corpo a corpo contro l’evidenza impersonale della fotografia per carpire ai soggetti barlumi di verità. Saranno accenni di sfida che scaturiscono da posture e sguardi irriducibili ad esprimere frammenti di personalità non irregimentate, come nei personaggi dei romanzi di Edward Bunker. I soggetti prescelti, restituiti in un rigoroso bianco e nero, diventano esempi calzanti di un’esemplare antropologia del male: la ricerca di Pignotti sceglie un ambito insolito per osservare il lato oscuro e lo sperdimento dell’essere umano. 

Questa luce di inquieto disordine si stempera nel tono favolistico e teatrale dell’analisi sul ritratto proposta da Andreas Nestl in Children’s Dreams. Con una strumentazione fotografica di altissimo livello, un raffinato casting per selezionare fanciulli dalla forte personalità, sontuosi costumi e sapienti makeup l’autore costruisce un singolare spazio dove far materializzare i segreti desideri della fantasia infantile. Le foto, colte citazioni dal sapore rembrandtiano, descrivono personaggi in bilico tra visione e sogno richiamando la ritrattistica classica. Allo stesso tempo, la superficie chiaroscurale, da cui emergono le giovani figure imparruccate, gli ammiccanti personaggi alati come fate e folletti, musici dalle candide chiome fiammeggianti, rimanda alle atmosfere che Heinrich Füssli aveva evocato nel dipinto Sogno di una notte di mezz’estate, ispirato alla celebre opera di Shakespeare. Un classico in cui la fiaba, l’illusione e l’arte si rivestono della forza inesausta dei sogni come nelle foto di Andreas Nestl che fanno approdare sul palcoscenico dell’immagine la magia dei desideri.

Sogni che possono tramutarsi in strane allucinazioni dalle pericolose conseguenze nella serie Balloon di Anna Laura Facchini. Nei lavori realizzati a quattro mani le due artiste giocano sulle valenze semantiche del titolo che richiama la leggerezza dell’oggetto ludico, il segno grafico dei fumetti, ma anche un pericoloso strumento di soffocamento. Nell’ambiente stravolto e surreale delle Facchini elementi bondage, maschere carnevalesche, abiti d’avanguardia e oggetti improbabili diventano i marchi identificativi di insensate personalità. Colori saturi, cromie squillanti, oscure textures si dispiegano per costruire una scenografia dove poter recitare assurde pièces di sferzante satira e grottesco delirio. La manualità raffinata del disegno, filtrata dalle tecniche digitali, permette alle Facchini di costruire un originale universo, dove il mondo del fumetto dialoga con l’estetica cyberpunk e l’individuo si trasforma in una caricatura dell’umanità alla deriva che solo l’ironia sovversiva può redimere. 

Un accento visionario si insinua con forza anche nell’opera di Andrea La Rocca incentrata sul personale rapporto con i modelli: un diario allusivo dove la posa diventa avventura mentale dai risvolti poetici. Giovani dalle caratteristiche fisiche proprie dei teenagers contemporanei, tagli di capelli alla moda e immancabili piercing approdano sul foglio neutro della carta, trasformato in un candido spazio di apparizioni. La potenza evocativa delle metamorfosi, che aveva trovato in Ovidio un sublime cantore, riappare nei disegni e nei raffinati acquerelli dell’artista. Nel trittico Malum immedicabile La Rocca crea una lirica sequenza in cui un ragazzo-cervo, simbolo del temperamento malinconico, si trasforma nell’emblema dello struggente sentimento amoroso. L’opera non cerca le scappatoie di una facile narrazione, ma propone un enigma, il rebus in cui la figura diventa la pedina di un gioco cifrato per interrogare il profondo e, attraverso la decantata essenzialità del segno, approdare nelle oasi dei miraggi. 

Uno spazio immaginifico che risplende da sempre anche nella ricerca di Umberto Chiodi pervasa da accensioni metafisiche e criptici rimandi formali. Nella serie Stemma egli realizza, con originali esiti formali, un’araldica contemporanea, allucinata e spiazzante. Lo scudo centrale, elemento fondamentale per contrassegnare l’identità militare o sociale, è vuoto e si tramuta in una sorta di specchio delle brame per chi guarda. Lo stemma, privato dell’immagine, diventa uno strumento proiettivo contornato da ricche gualdrappe che nelle pieghe accolgono figure generate dal mondo onirico. L’autore affianca disegni scientifici a visioni chimeriche per ricombinare un’anatomia gemmata da clonazioni improbabili e mutazioni genetiche. Il proliferante universo di surreale e malsana bellezza ideato da Umberto Chiodi sembra coniugare Georges Méliès e Max Ernst, gli studi leonardeschi e gli acidi deliri di Roland Topor. L’obiettivo è di far superare all’osservatore la visione indotta dalla società mediale e, attraverso il varco bianco dello scudo vuoto, offrirgli l’occasione di accedere nel nobile regno dell’arte. 

Matteo Fato mette in campo, invece, l’energia prorompente di una sperimentazione che rifiuta il limite della bidimensionalità per gemellarsi con la pratica installativa. L’artista plasma un originale spazio sensibile che riconfigura il modello tradizionale di esposizione pittorica e grafica, inserendo i lavori su piedistalli, interfacciandoli con volumi aggettanti, frammenti di mobili, e forme scultoree. Matteo Fato è sempre stato interessato alla figura umana e alla natura, rappresentandoli con sorprendente libertà espressiva su molteplici supporti e diversi linguaggi che hanno spaziato dalla pittura al disegno, dall’incisione al video. La sua figurazione ha sondato le partiture cromatiche dalle accensioni violente di una pittura espressiva, affrontato la libertà gestuale educata dallo studio della calligrafia orientale, padroneggiato il rigore chirurgico della tecnica incisoria, esplorato l’animazione attraverso le potenzialità del disegno digitale. Questo universo, percorso dalla forza creativa del molteplice, si distende su una complessa architettura di volumi per descrivere la geografia mobile propria della magmatica identità contemporanea.

Tra fotografia, video e pittura si muove il lavoro di Annaclara Di Biase, che affronta una figurazione pittorica di forte impronta iperrealista senza cadere nel freddo virtuosismo della resa fotografica. Per la particolare scelta delle pose e degli abbigliamenti, l’indagine dell’autrice diventa il ritratto di un’identità femminile legata all’ambiente del cinema e del teatro, ma anche alla semplice quotidianità. Tra abbandoni sognanti e performances minimal, le donne descritte da Annaclara Di Biase oscillano tra la femminilità attuale, segnata dalle icone dello star system e da una santità con risvolti inquietanti. Nelle performances Aghata e Lux, documentate in video silenti, i simboli del martirio diventano figure metaforiche per riflettere sulle manipolazioni inflitte al corpo femminile. Una ricerca che ha il pregio di evitare i toni estremi del genere pulp per favorire il sottile gioco dell’ironia. L’artista riveste gli ambienti di tessuti decorativi o colori caramellosi e crea costumi e acconciature che, nonostante la serietà dei temi proposti, esprimono la forza pungente del sarcasmo.

La tematica del corpo diventa centrale anche per Maria Crispal che declina la sua investigazione tra l’indagine grafica incentrata, con la serie Big Mater Bang, sulla simbolica Grande Madre che attraversa le culture e la storia, e performances dislocate tra lo spazio reale e il mondo virtuale di Second Life, come per Viva la fata Turchina. Alcuni environment proposti (Marilyn Buongiorno) vengono contrappuntati da originali sonorità definite con il neologismo Slogongs, derivato dall’unione dei termini slogansong e gong: una commistione di vocalizzi disarmonici che mescola testi popolari e slogan politico-sociali e produce un sottotesto perturbante capace di creare la singolare partitura sonora, definita dall’autrice come incrocio tra il canto delle sirene e il trillo fastidioso di una sveglia. Maria Crispal, mescolando arte low brow e high brow, ridefinisce la sua attività espressiva, impegnata in ambito sociale e didattico con il network Solstizio, per sondare le nuove forme dell’immaginario sviluppato nella realtà globale.

Un impegno che caratterizza anche la recente opera di Fabrizio Cotognini, il polittico Tentativo di creare un’eco mentale: un’installazione di quattro moduli e una traccia sonora composta da suoni tratti dall’ambiente naturale. La precedente ricerca dell’artista, incentrata sullo studio del disegno in cui il rigore della geometria dialogava con il mondo della natura, diventa nel nuovo lavoro un articolato arazzo di simboli e segni. Immagini di celerini in tenuta antisommossa, emblemi del potere e dell’ordine mondiale imposto a stati distrutti dall’economia globale, si alternano a icone di celebri capolavori della storia dell’arte, metafore della perenne lotta tra la libertà di pensiero e i drammi dei totalitarismi. Un universo costruito come tarsie di un complesso mosaico, iscritto nelle volute di una sinuisoide che rimanda alla ciclicità degli eventi storici e costellato da cavallette, simboliche piaghe del tragico impoverimento delle risorse e del dilagare della povertà. 

Se l’esplorazione sul segno Di Fabrizio Cotognini si tinge di accenti politici, quella di Marco Salvetti si incentra sul valore linguistico della prassi pittorica attraverso un processo formale indirizzato verso una marcata defigurazione. Inizialmente la sua indagine si muove dentro un contesto iconografico proliferante e surreale descritto da una ricercata bad painting che fa dialogare le atmosfere di autori come Jan Svankmajer e Lorenzo Viani, Edvard Munch e Martin Kippenberger. Il mondo creato da Marco Salvetti, con una pittura che descrive i confini sfrangiati di un reale sul punto di liquefarsi o di sciogliersi in un’anatomia gelatinosa, si tinge di note inquietanti che risuonano da figure misteriose evocate come in uno stato di trance. Nei recenti lavori lo spazio si scompone in una partitura visiva sempre più rarefatta e pulviscolare. Le forme si dissolvono lasciando flebili tracce e piccoli tocchi cromatici, simboli di una grammatica ancestrale che evoca mappe e costellazioni per orientarsi negli aperti orizzonti dei personali viaggi interiori. 

Dopo aver indagato le principali linee espressive degli artisti in mostra – la pittura di minuziosa resa realistica o di violenta rappresentazione espressionistica, la fotografia di estrema perfezione formale, le azioni performative di forte valenza simbolica, i disegni dagli accenti surreali o rivestiti di poesia, le complesse installazioni e i rigorosi interventi di matrice politico-concettuale – il panorama che sembra delinearsi è quello di un articolato territorio dalle incerte frontiere da cui emergono figure appartenenti al poliedrico universo dell’identità contemporanea. Il soggetto prescelto, la figura umana, non diventa un banale strumento di rappresentazione, ma lo strategico pretesto per indagare, attraverso l’arte, la profonda natura dei linguaggi e delle tecniche espressive e narrare le essenze profonde del reale. Come sosteneva Francis Bacon in una delle celebri interviste concesse a David Sylvester, “Il soggetto è l’esca”: l’esca fondamentale per accedere nello spazio delle rivelazioni. Riflettendo sul suo processo creativo, il grande artista testimoniava un metodo applicabile anche agli autori di Figurabile: “bisogna cominciare da qualche parte, e inizi dal soggetto che, gradualmente, se le cose funzionano, svanisce e lascia questo residuo che possiamo chiamare realtà.”