un disordine ricercato

un disordine ricercato

Come aquilone innocente

Rudi Fuchs inaugura il Castello di Rivoli nel 1985 con Ouverture, una mostra che, secondo le parole del critico, “include l’idea di mutamento e quella di discussione e di critica”. Intitolare Ouverture l’antologica di Fabio Bertoni, a vent’anni della sua prematura scomparsa, esprime la volontà di creare un’introduzione, un primo momento di dibattito critico intorno alla sua opera integralmente permeata dal tema del mutamento. Ma il termine ci trasporta, per assonanza, nell’universo musicale dove l’Ouverture, da custode di una mera funzione decorativa rispetto all’opera, col tempo si emancipa, articolando una struttura di materiali tematici che la rendono specchio dell’intera composizione. L’arte di Bertoni, a uno sguardo retrospettivo, dispiega anch’essa una complessa orchestrazione di figure che riemergono costantemente nei diversi cicli di lavori; un file rouge d’immagini interpolate dentro la cassa armonica di una sensibilità accordata alle sonorità poetiche delle fantasie ricorrenti. La sua opera è una rapsodia in cui il tempo e lo spazio diventano gli assi portanti per descrivere una personale geometria interiore. La figura del diedro, centrale nella ricerca di Bertoni, esprime, infatti, l’isometrico intreccio costruito sulla continua traslazione di motivi, sui rispecchiamenti di eterne riflessioni che si pongono come “aperture”. Ouverture appunto.

Oltre l’archeologia: narrare attraverso il mito

Nella cultura moderna – basti pensare all’incomparabile esempio dell’Ulisse di James Joyce – il mito è stato un fondamentale strumento per rappresentare la condizione umana in una dimensione atemporale. In tale prospettiva esso perde ogni connotazione storica per rivivere nell’attualità, spogliato delle originarie valenze. La ricerca artistica di Fabio Bertoni si è spesso focalizzata sul recupero dei miti per illuminare figure tratte dalla realtà contemporanea. 

Egli evoca Dafne e il suo tragico e disperato amore per tradurre lo straziante dolore di una prostituta fanciulla ricordata dalle cronache per una stuprata giovinezza che non concede perdono; ripensa ai clerici vagantes e i loro Carmina Burana: componimenti poetici e atti d’accusa elevati a canto armonico; innalza Icaro a simbolo dell’irriducibile volontà di chi si assume i rischi legati al volo e al viaggio verso la luce, a dispetto della prudenza del calcolo; ricorda gli angeli ribelli, tanto cari all’artista, i quali, per voglia di libertà o per assecondare un tragico destino, mettono in gioco la loro stessa incolumità.

Su Icaro, Bertoni scrive parole di toccante essenzialità:

Icaro

eco storico

furto di spazio

Angelo Splendente

presuntuoso

sciolto nella ricerca di luce

come meteora cadente

La cifra stilistica dell’artista, declinata attraverso i linguaggi del disegno, dell’incisione e della pittura, si concentra principalmente sulla narrazione; non a caso alcuni dei suoi esemplari lavori sono cartelle d’incisioni: Carmina BuranaAngeli ribelliDafneIl toro e la luna. È come se la forza compositiva delle opere seriali si costruisse sulla giustapposizione di tessere e frammenti per comporre un mosaico dai molteplici significati in cui il tempo si accorda alle intermittenze della simultaneità come nell’acquaforte Vanità.

Dall’alto orizzonte oscuro emerge un’apparizione misteriosa: un volto di donna contornato da una maschera creata da farfalle notturne. Gli occhi si mescolano ai decori delle ali, moltiplicando lo sguardo in una sorta di strabismo spaziale. L’immagine è inscritta in un grande cerchio che delinea i contorni di uno specchio dalla cornice finemente decorata, sul quale, in bilico, si trova una lucertola dalla testa sdoppiata, come in una cronografia. L’incisione di Fabio Bertoni, Vanità, è un istantaneo racconto visivo dove l’evocazione della figura femminile, dal raffinato sapore klimtiano, esprime simbolicamente la fuggevole soddisfazione del peccato destinato a non reggere la prova del tempo. La bellezza, che si vorrebbe atemporale, è soggetta allo sfiorire, mentre solo l’arte riesce a riconsegnarla intatta, sfuggendo alle trappole della caducità. Vanità è un rebus legato al tempo non lineare, in cui passato, presente e futuro sono inestricabili; una novella raccontata da segni incisi con chirurgica sapienza e cesellata con la perizia di un poeta incline alla narrazione.

T.S.Eliot, analizzando l’opera di Joyce, parla di “metodo mitico”, con il quale lo scrittore irlandese distrugge la trama narrativa tradizionale in favore di una prospettiva in cui la sovrapposizione si sostituisce alla logica lineare. Il presente coesiste con il passato, proiettandoci nello spazio delle epifanie. Un metodo conosciuto da Bertoni, se in un suo appunto annota: “Nel creare un’opera d’arte l’artista compone, involontariamente, una sintesi fra passato e presente, fra una tradizione esistente e la sua negazione. A tale sintesi, egli aggiunge la consapevolezza del suo presente fisico e spirituale, il sentimento del suo tempo, onde in quell’atto di rivelazione il passato si conchiude con il presente ad un livello tanto fantastico da essere previsto anche il futuro. Supremazia dell’atto pittorico, rivelazione piuttosto che comunicazione”. L’arte, quindi, come sconfinamento nello spazio dove i segni esprimono visioni atemporali: miraggi tradotti da gesti che permettono di svelare essenze recondite. 

In Bertoni la narrazione sincopata, spezzata in frammenti dai violenti accenti descrittivi, si coniuga con i temi affrontati dai suoi amati scrittori: Cervantes, che esprime in forme perfette i sublimi deliri e le folli visioni dell’immortale Don Chisciotte; Mario Tobino, che esplora con i toni aspri, tipici del suo stile, le ossessioni erotiche in manicomio delle Libere donne di Magliano; Ludovico Ariosto, che costruisce con L’Orlando furioso un’opera dalla complessa architettura polisemica propria di un demiurgo dell’immaginario; Guillame Apollinaire, che, grazie all’esuberante libertà sperimentale, diventa lo scrittore con il quale Bertoni condivide una fiammeggiante rêverie erotica. Opere e autori ai quali l’artista dedica “traduzioni” grafiche di potente e originale forza espressiva.

Attraverso la sua febbrile ricerca, Bertoni dimostra di possedere la forza di un autentico narratore dedito a scardinare le apparenze, a scavare foreste di simboli rimasti in attesa di un sensibile “interprete” che riesca a rinnovarli, offrendo loro nuova linfa vitale.

Lo spazio fluido: tra astrazione e figurazione

“Se essere un pittore figurativo significa ritrarre la realtà per ciò che essa appare esteriormente, senza cercare di interpretare i più reconditi significati, io non posso definirmi tale. Di qui la mia auto-definizione di artista astratto, cioè colui il quale esprime una realtà che talvolta gli altri non vedono, non sentono, una realtà fatta di mille simboli i quali non aspettano altro che un interprete che li scopra e li riveli”. Questa lucida dichiarazione di poetica enunciata da Fabio Bertoni nel 1993 rappresenta un punto fermo che illumina la sua ricerca espressiva. La cifra creativa ed esistenziale che muove il suo operare di artista inquieto è l’incessante scavo dell’universo poetico in bilico tra rigorosa architettura formale e febbrile furia sovversiva. Un paesaggio mentale che rinnega le apparenze ed evochi uno spazio altro, nascosto alle distratte osservazioni frutto dell’abitudine.

Fabio Bertoni esprime un personale mondo nato dall’osmosi tra figurazione e astrazione, in cui albergano figure dalla fluida anatomia quasi fossero generate da un presagio di tempesta. Nel San Sebastiano del 1988, porzioni anatomiche, restituite con rigorosa sapienza veristica e contornate da pennellate guizzanti, si materializzano come per incanto in una spazialità opalescente. In quest’opera, la dialettica tra astrazione e figurazione produce una visione trasfigurata carica d’inquietudine e vorticosa tensione. L’imprevista metamorfosi di piani, linee, traiettorie crea un potente dinamismo attraversato da correnti invisibili e tensioni telluriche. Gli accenni figurativi si dissolvono dentro una segreta geometria, come nell’Icaro del 1987.

L’utilizzo di codici espressivi instabili è la via maestra per affrontare le tematiche della mutazione e del viaggio, centrali nella poetica dell’autore che guarda alle grandi lezioni di artisti contemporanei, quali Francis Bacon e Graham Sutherland, che, con ottiche e intenti diversi, hanno indagato le segrete corrispondenze e le repentine mutazioni della natura e dell’essere. In Bertoni, la figura umana è evocata dai suoi frammenti nel momento in cui sembra dissolversi, o al contrario, mentre appare sul palcoscenico della rappresentazione, lacerando una cortina di tenebra, come nell’incisione del 1992 Specchio N.1. Lavoro che richiama la frenetica ricerca dell’arte che tende all’assoluto, diretta citazione della tormentata opera che impegna Frenhofer, il protagonista de Il Capolavoro Sconosciuto di Balzac, nella furiosa lotta ingaggiata contro il caos e l’informe.

Le lastre, le carte e le tele, sono per Bertoni superfici sulle quali fa apparire un’umanità dolente in cerca di riscatto, in viaggio dentro lo spazio fluido di un’identità inafferrabile o rivestita degli ambigui filtri propri delle maschere. Egli materializza paesaggi attraversati da violente raffiche di vento che possono condurre un aquilone ad altezze vertiginose, simbolo dell’artista lanciato verso vette sublimi con lo sguardo rivolto sul mondo, anche a costo di rischi cocenti.

L’Angelo mio non ha ali

né lucenti né nere

ma corpo lucente di morte

nel diedro della mia vita

come aquilone innocente

Un aquilone librato negli spazi senza confini dove si manifestano le visioni, tenuto da una corda, come quella evocata da Guido Ceronetti per Emil Cioran: “intrecciata di verità e di conoscenza metafisica dell’uomo”.