un disordine ricercato

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Mario Dondero o la visione etica 

In una serie di video-interviste curate da Marco Belpoliti, Mario Dondero afferma che “il ruolo dei fotografi sarebbe di raccontare quello che non va, di raccontare quello che può essere corretto, di raccontare quello che può aiutare a cambiare il mondo.”. La sua dichiarazione si pone in controtendenza rispetto al refrain ripetuto come un mantra da molti autori, per i quali nessuna opera e nessun gesto espressivo possono davvero incidere sul corso degli eventi, e assume, invece, uno specifico valore per descrivere una parte essenziale della personale biografia di Dondero: un uomo solidale con gli altri, che fotografa in modo lineare, semplice e con la più grande sincerità per assolvere ad un dovere assoluto, cercare sempre, con coraggio, di raccontare la vita e la verità. Questo breve ritratto descrive il rigoroso imperativo a cui il grande fotografo non è mai venuto meno. Egli è il sensibile testimone nutrito dalla forte esperienza formativa della resistenza partigiana, da cui ha tratto la visione etica con la quale osserva e riporta, grazie alla fotografia, i grandi e i piccoli avvenimenti della storia. Ci ricorda che le immagini possono essere un potente detonatore quando “valgono mille parole” e riescono a mobilitare le coscienze, quando l’impegno civile, la vicinanza all’individuo sono il frutto di una condivisione e le foto diventano “il collante delle relazioni umane.”.

L’avventura di Mario Dondero nell’universo del fotogiornalismo nasce all’interno del fertile e vitale clima culturale nella Milano del dopoguerra. Il desiderio di intraprendere la professione giornalistica si concretizza con la collaborazione a l’Avanti, l’Unità e come cronista per Milano Sera, quotidiano dove gravitavano intellettuali della statura di Elio Vittorini. Dopo aver appreso alcuni rudimenti di tecnica fotografica, essenziali per l’attività di cronista – come ricorda nel suo esemplare “autoritratto”, curato da Simona Guerra, per la Mondadori – Dondero sviluppa la sua definitiva passione per il fotogiornalismo attraverso la collaborazione all’avanguardistica rivista d’attualità “Le Ore”, dove il reportage rivestiva un ruolo decisivo. In quegli anni stabilisce un sodalizio con figure eminenti della cultura raccolte intorno al leggendario “Giamaica”, da lui definito “una specie di università alternativa”. Un bar dove si potevano incontrare Salvatore Quasimodo, Dino Buzzati, Camilla Cederna, Dario Fo, e che diventa il luogo di ritrovo degli amici fotografi, Alfa Castaldi, Carlo Bavagnoli, Giulia Niccolai e soprattutto Ugo Mulas con cui stabilisce un legame di profonda amicizia. 

Da questo momento rinuncia alla sedentaria monotonia dell’attività stanziale di una redazione per diventare cittadino del mondo e, accompagnato dalla macchina fotografica, si trasforma in un instancabile viaggiatore, in “un franco tiratore per immagini”; un nomade che ha trovato strategici punti d’approdo mai definitivi ma decisivi.

Parigi diventa il luogo d’elezione di una seconda patria di cui condivide i valori ideali di democrazia e civiltà. Nella capitale francese nulla sembra sfuggire al suo sguardo: gente comune al bistrot, riunioni e assemblee della Gauche, i cambiamenti politici – sorprendente il valore metaforico de La deposizione di De Gaulle, titolo di una fotografia del 1958, – ma anche i protagonisti di una stagione straordinaria, ripresi in immagini inedite, come il volto leggermente sorpreso di un maturo Man Ray, la silhouette intrigante di un giovane Roland Topor; lo scrittore William Saroyan, maestro del Realismo, colto in un momento personale; il gruppo di scrittori francesi che diedero vita alla corrente del Nouveau Roman, ripresi davanti alla sede delle Éditions de Minuits, in una foto considerata storica. Uno dei più celebri scatti di Dondero. 

Parigi rimane una sorta di luogo dell’anima dove ritornerà dopo la significativa pausa temporale degli otto anni romani durante i quali Dondero, con il solito intuito, frequenta, all’inizio degli anni Sessanta, ristoranti e caffè dislocati intorno a Piazza del Popolo. Uno snodo centrale per intrattenere rapporti e frequentare scrittori come Alberto Moravia e Ennio Flaiano, registi come Mario Monicelli e Pier Paolo Pasolini e incontrare, in un altro luogo strategico, il bar “Da Plinio”, legato alla galleria La Tartaruga, Mario Schifano e artisti che hanno cambiato il volto dell’arte contemporanea in Italia. Il gallerista Plinio de Martis era tra l’altro un notevole fotografo e componente della “scuola romana”, ricordata da Mario Dondero, vista la comune sensibilità intellettuale, per la “forte connotazione progressista, ispirata all’idea della fotografia come denuncia delle ingiustizie sociali, come efficace strumento d’informazione, sul modello della Magnum.”. In ogni caso questi importanti approdi nei centri nevralgici della cultura internazionale – Milano, Parigi, Londra, Roma – non sedavano mai la sua inesausta volontà di viaggiare e di documentare, che lo porterà a spostarsi continuamente, prima dell’ultimo approdo a Fermo nelle Marche, per realizzare reportage e documentari di grande impatto e dai risvolti civili come quelli recenti dall’Afganistan per Emergency.

Negli anni la volontà di testimoniare la forza di un giornalismo che rinneghi il cinismo e si avvicini con passione alla persona lo ha portato a lavorare con le più importanti riviste nazionali e internazionali riprendendo alcuni degli avvenimenti capitali della storia contemporanea: la potente voglia di libertà collettiva espressa durante le manifestazioni del Maggio francese nel ‘68, anno che lo vede protagonista anche di alcuni scatti memorabili rubati durante il processo al leader della Resistenza greca, Alekos Panagulis; diversi conflitti internazionali dall’Algeria alla Cambogia; eventi epocali come la caduta del muro di Berlino nel 1989.

La sua costante attenzione verso gli avvenimenti politici non gli ha fatto dimenticare l’importanza di uno sguardo rivolto verso il sociale, e la gente comune che riesce ad incarnare verità non scontate attraverso sguardi e gesti in grado di esprimere la forza sovversiva della “semplicità” umana. Straordinari in tal senso sono gli scatti realizzati nel 1958 alle donne e ai pescatori al mercato del pesce di Perriche in Portogallo; le fotografie delle genti rurali dai volti segnati che mantengono un’intatta forza espressiva ripresi sia in Spagna nel 1962, che in Italia nei luoghi di Piero della Francesca nel terzo millennio; le immagini dei pastori in Anatolia, dall’aria intimidita, figlia della riservatezza e della solitudine, e quella di un giovane cameriere spagnolo che mostra la felice vitalità di un volto sorridente aperto al futuro. Foto che attestano un rispetto per la persona e una tensione ideale capace di cogliere verità essenziali con semplicità, senza ricorrere a orpelli e sotterfugi formali.

Un approccio franco e diretto, evidente anche nei celebri scatti con i quali, nella sua lunga carriera, ha immortalato i maggiori esponenti dell’intellighenzia culturale, artistica, letteraria e dello spettacolo internazionale, tra i quali ricordiamo Samuel Beckett, Francis Bacon, Jean-Paul Sartre, Maria Callas, Günter Grass, Jean Genet, Mario Schifano, Yves Montand, André Malraux, Claudia Cardinale, Fernando Arrabal, Attilio Bertolucci, Emanuelle Riva, Andrej Sinjavskij, Pier Paolo Pasolini, Joris Ivens, Jean Seberg, Saverio Tutino, Hans Magnus Enzensberger, Vittorio Gassman. Un panorama di volti che dimostra la capacità di Mario Dondero di tessere rapporti interpersonali grazie alla sua affascinante e “onnivora” personalità, ma anche alla sua propensione a considerare la letteratura e la cultura tutta un bagaglio fondamentale per affinare nel fotografo uno sguardo “consapevole della condizione umana”.

Nella sua opera di fotoreporter la cultura non è mai stata un intralcio, semmai un potente antidoto contro gli artifici estetici che avrebbero potuto contaminare la verità strenuamente cercata con le sue immagini. Le foto di Mario Dondero, in cui la presenza umana è centrale e insostituibile, hanno raccontato con rigore, dalla seconda metà del Novecento ai nostri giorni, gli eventi della storia ma, soprattutto, sono una profonda testimonianza morale. Ci insegnano quanto le immagini possano muovere le coscienze mostrando gli errori di una società che relega al margine gli sconfitti; quanto possano cominciare a cambiare il mondo regalandoci una visione etica che riscopra la solidarietà verso l’altro e la forza della ragione. La sua fotografia fa riscoprire, alla fine, anche l’energia propulsiva dei sentimenti, perché, come ricorda Enrico Deaglio nella prefazione a Donderoad: “Mario Dondero fotografa ciò che ama”.