un disordine ricercato

un disordine ricercato

L’eterna migrazione dell’informe

Corolle di arti sbocciate da eleganti contorsioni si concedono a un sabba di volti-stame. Moltitudini sormontate da anatomie fluttuanti dentro ingorghi corporei si lasciano guidare da figure acefale. Polluzioni generate da erotismi segreti si tingono di sanguigni riverberi. Immensi stormi di uccelli si librano negli anfratti, sospinti da invisibili correnti. Racemi e radici si espandono come rizomi scomposti o compongono raffinate cornici per luoghi abitati da enigmi oscuri. Arazzi di segni migrano verso il regno delle inesauste insistenze e si dispongono dentro reticolati d’intrecci, trascolorando nell’ornamento. 

Le personali topografie create da Simone Pellegrini, con la perizia di un sapiente calligrafo dell’immaginario, delineano le mutevoli coordinate di una cartografia visionaria e atemporale in cui l’altrove si popola di elementi percorsi da un fremito d’incessante dinamismo. Una musicalità polisemica riecheggia in spazi permeati dalla fertile danza di riti propiziatori che sembrano presagi tribali. L’architettura compositiva delle opere asseconda l’adagio di un movimento fluido dentro il quale le anatomie sperimentano «la potenza di essere un flusso, di avere delle parti che non smettono di venire e andarsene», secondo le riflessioni di Gilles Deleuze sulle caratteristiche essenziali dei corpi delineate da Leibniz.

Come antiche pergamene di arcane fantasie, l’arte di Pellegrini invoca una temporalità magmatica. La sua personale cosmogonia richiama le miniature mezarabiche dell’VIII secolo che descrivono i Commentari dell’Apocalisse di Beato di Liébana e le proliferanti trame di figure che compongono l’arabescato e allucinante universo poetico di Adolf Wölfli. Osservando le sue carte sfrangiate, in cui le iconografie contemporanee si nutrono di segni tratti da culture lontane, riusciamo a compiere un viaggio nel tempo. L’oriente dialoga con l’occidente, le antiche scritture incontrano i deliri dei grandi reietti, le esegesi scritte per chiarire teologie complesse, come La guida dei perplessi di Maimonide, si mescolano alle riflessioni filosofiche attuali. Questa capacità di riverberare l’eterogeneo non produce l’ennesima, stanca opera di sapore postmoderno, ma, grazie alla scansione formale incentrata sull’eterno rinnovamento dell’identico, rivela una ricerca di assoluto rigore. Più che all’affascinante ed erudita archeologia di sapienze esoteriche, rimanda alla stratificata visione, frutto di quel «naturale clivaggio quando i millenni decadono» di cui parla l’autore. 

Nelle opere di Pellegrini il tempo si avviluppa, i segni esprimono un ventaglio imponente di articolazioni in continua estensione, irraggiamenti fiammeggianti, rapporti dissonanti, i quali, come per magia, non precipitano in un caotico disordine ma producono una inattesa e raffinata armonia sbilenca. Gli equilibri sembrano dissolversi per posizionarsi in un nuovo orizzonte compositivo da cui scaturisce una concertazione instabile di rapinosa seduzione. Dallo sbocciare continuo di diagrammi impensabili, traiettorie spontanee, abitate da fisicità disarticolate e corpi mutanti, si materializza un universo in perenne metamorfosi che esprime l’insofferenza, la ribellione dell’autore verso la biologia armonica, richiamando le parole di Cèline, per cui «ogni rivolta è più biologica che tragica». Le figure create da Pellegrini, depositate dentro lo spazio di una geografia ancestrale, mostrano corpi pervasi da un’alterità irriducibile: piegati fino allo spasimo, accettano di essere irrimediabilmente diversi, pur di essere. 

L’artista accoglie l’informe, non come morfologia abietta ma come promessa d’inesausta potenzialità. Il suo pensiero intreccia la riflessione di Georges Bataille espressa negli scritti redatti per la rivista Documents, dove il tema delle forme visibili si pone in una prospettiva dialettica che rifiuta i modelli consueti, offrendo alle forme simboliche inedito vigore. Nei testi, le deviazioni della natura, il basso materialismo, la gnosi, la figura umana, e l’arte primitiva diventano momenti centrali di un pensiero che sceglie la «messa in movimento delle forme», secondo Didi-Huberman. L’informe si confronta con l’alterazione e si concede l’inarticolato procedere verso configurazioni formali dominate dal pathos. Pellegrini fa irrompere sulla scena il potere creativo dell’accostamento asimmetrico. La forma non è rinnegata ma, in un’ottica ascensionale, viene lasciata veleggiare nelle sconfinate lande delle libere associazioni.

Le immaginarie planimetrie create dall’artista generano la musicalità primordiale di un’accurata disarmonia che si libra a sondare le inconsuete prospettive a volo d’uccello della veduta aerea, per catturare il lato sorprendente e fuori dal comune degli spazi e delle superfici. Pellegrini ricerca un’inedita razionalità continuamente riconfigurata, mobile e straniante, nel tentativo di abbracciare l’universale e trovare un nuovo posto nel mondo. Tutto appare come sospeso. Lo sguardo, galleggiando senza punti di orientamento, oltrepassa la visione convenzionale, assapora la vertigine del distacco e cattura forme anomale, disseminate nello spazio come figurazioni in bilico tra miraggio e profezia. Se la veduta dall’alto, come sostiene Kirk Varnedoe, ci conduce verso la prospettiva posta al di sopra del mondo, che preannuncia l’estraniamento e il distacco emozionale carico di libertà prodotto dal «volo della mente», per Pellegrini la visuale aerea è connaturata alla sua prassi creativa.

L’autore usa il disegno come appunto stenografico, memoria predittiva, diario visivo, con il quale prefigura la sapiente orchestrazione che permetterà di trasformare le forme in matrici, trasferendole sulle carte con potente gestualità e strumenti forgiati allo scopo. Come sindoni berbere e unzioni alchemiche, le iconografie trasmigrano su oliate superfici attraverso il calco, depositando la combusta, scura e vellutata materia del carboncino o la vermiglia pastosità dei pigmenti. Alcune foto ritraggono l’artista nello studio mentre realizza le sue preziose creazioni. Il pavimento è saturo di carte arrotolate, frammenti di fogli strappati, brandelli di matrici sparse, appunti grafici sommersi in un mare di detriti cartacei. Una piccola porzione di spazio viene liberata per ospitare la carta sulla quale lavora. Inginocchiato accanto a essa, egli appare come l’orante genuflesso in un agone mentre materializza il personale universo. L’immagine incontra l’aniconico. L’ornamento, senza delitto, muta in «ghirlanda». 

Simone Pellegrini crea opere in cui il meraviglioso non si adegua a una grammatica normativa, ma si accorda con l’unicità dell’idioletto e la fertilità del linguaggio che anela a leggi superiori, come nell’invocazione di Artaud: «Basta con i giochi di lingua, con gli artifici della sintassi, il carosello delle formule, c’è ora da trovare la grande Legge del cuore, la Legge che non sia una legge, una prigione, ma una guida per lo Spirito perduto nel suo stesso labirinto.» 

Nei labirinti materializzati dall’artista attraverso la ricercata poetica del rammendo, i fluttuanti sentieri dell’informe trovano prospettive eccentriche, che esprimono differenti livelli d’astrazione nei quali diventa difficile rintracciare un senso unico. Nelle carte di Pellegrini la logica dell’eterogeneo fa risplendere gli archetipi, trasferendoli in un caleidoscopico arazzo di motivi dinamici di grande eleganza formale in grado di decentrare la nostra immaginazione. La sua arte permette alla percezione di espandersi, di planare verso territori dove la natura e i corpi esprimono plasticità dal forte potere rivelatore. Ci mostra quanto l’immaginazione abbia la forza di concepire spazi liberi dai domini delle convenzioni; rendere i luoghi ammantati di risonanze arcaiche, specchi dove poter contemplare desideri reconditi; offrire ai segni la magia incantatrice e imponderabile del sublime.