un disordine ricercato

un disordine ricercato

Caro Enzo,

ti invio questa mail, inoltrandola ad Alessandro, vista la tua irriducibile idiosincrasia verso il computer, che ti fa rifiutare di guardare perfino lo schermo di un portatile. Ti scrivo per fare il punto sul libro e sul mio intervento. In questi giorni sono stato ad Urbino in Accademia per gli esami e la tentazione di chiedere agli studenti chi fosse Enzo Cucchi e cosa ne pensassero della tua arte è stata forte. Molti mi hanno risposto un grande artista, altri, un esponente importante della Transanguradia, alcuni non sapevano chi fossi, uno ha sentenziato: un artista visuale – forse aveva navigato su Google. Una bella ragazza traforata di piercing ha quasi urlato, “un folle” e il suo sguardo si è illuminato di un sorriso complice e inquietante. Un giovane iscritto a Pittura, con compiaciuta baldanza: “un grande visionario. Il mio artista del cuore”. Un nutrito gruppo di studenti, che intuivo introversi, dichiaravano con calma e convinzione: “il mio artista preferito”, e alcuni aggiungevano, sorprendendomi, anche il titolo di alcune opere amate. Una si è esaltata, dando un’interessante interpretazione, della serie Arthur Rimbaud au Harrar. La tua arte, invece, ha collezionato una serie di diversi aggettivi: visionaria, difficile, poetica, potente, lirica, complessa, furente…

Sentire l’opinione di giovani studenti è stato un modo per catturare uno sguardo altro e raccogliere alcune idee dopo il nostro incontro nella tua Morro d’Alba dove abbiamo selezionato le immagini da inserire nel libro e deciso alcune linee editoriali. Devo riconoscere che dopo quella giornata mi sono sentito come un pesce spiaggiato che aveva attraversato un mare in tempesta. In fondo, lavorare con un artista, quando non è banale routine, è sempre una difficile traversata che prevede la possibilità del naufragio. La sua bellezza sta, probabilmente, proprio nel rischio e nell’azzardo che essa comporta. Quindi, questa mail è come un messaggio in una bottiglia affidata a correnti amiche nella speranza che possa essere raccolta.

Certo, guardando le immagini delle opere, per la quasi totalità inedite, alcune delle quali approderanno in mostra, la prima reazione che suscitano in me è l’orgoglio di lavorare ad un tuo nuovo progetto, affiancato alla tentazione di scrivere alcuni pensieri su di esse. Come non essere irretiti e non provare a riflettere sulle straordinarie visioni che hai fatto approdare, con ricercata noncuranza, sulle tele o materializzato con forme potenti in ceramiche o bronzi bruniti? Opere nelle quali, bastoni in bilico, per possibili, estenuanti traversate nel deserto, si ergono in luoghi candidi che rivelano, nel fondo, presagi di albe rosate; gatti dagli occhi fluorescenti compaiono sospesi in uno spazio tradotto da un arazzo di verdi sublimi; velieri in balia di fondali limacciosi e bonacce stagnanti cercano refoli di vento e arcobaleni lontani, riportando alla mente alcune indimenticabili pagine de La linea d’ombra di Conrad; donne-cascata compaiono come per incanto da una materia tradotta dagli impasti sapienti di gialli squillanti. Opere che rivelano un mondo abitato dalla meraviglia che dà continuamente scacco alla sterile rappresentazione.

Dentro di me sento che scrivere un testo critico sarebbe inopportuno o, ancora peggio, inutile. Saranno le tue opere a parlare, perché, se, come giustamente sostieni, una mostra non è una vetrina, il curatore, a maggior ragione, dovrebbe smettere di fare il vetrinista. Dovrebbe, invece, rischiare di più facendo un passo indietro o meglio di lato. Affiancare in modo discreto l’artista, offrendo la nuda ribalta alla centralità dell’opera, alla sua intraducibilità senza la logora litania fatta di mere speculazioni. Scegliere di preservare il mistero, l’enigma irrisolto che ogni vera opera d’arte porta con sé. Lottare affinché la poesia o il travaglio non siano addomesticati da parole di circostanza. Accudire l’indicibile senza sovrapporsi ad esso, offrire, se necessario, il balsamo di una cura con discrezione. Questo dovrebbe fare un curatore, mostrando maggior coraggio: lasciare l’artista e la sua opera veleggiare verso “la sua inevitabile destinazione”, per dirla con le parole di John Berger.

Ritengo che sia più giusto che la mia sfida si concentri, insieme a te e Giacinto, su come restituire nel libro una forma non pacificata; essenziale ma non scontata, libera ma con una sua intrinseca necessità, spinta da un flusso dove immagine e testo possano intrecciarsi senza retorica, senza didascaliche spiegazioni. Solo così potremmo, forse, riuscire a realizzare l’aroma del sogno utopico che lanciasti fin dal 1989: creare un libro “lunatico” per una mostra lunatica.

Sperando in una buona stella e in una scialuppa di salvataggio ti invio i più cari saluti di una incondizionata stima,

Umberto