un disordine ricercato

un disordine ricercato

Delineare l’altrove. Riflessioni su Martine Franck

La fotografia può restituire realtà catturate come immagini esemplari, uniche ed irripetibili, in cui il mondo dispiega le sue possibili verità, ma può essere, anche, il risultato di uno strumento in grado di creare icone per infinite narrazioni. Il fotografo inquadra un frammento e ritaglia istantanee dall’ampio contesto che ospita l’universo vitale e fluido del reale. L’atto fotografico è la selezione di uno spazio del visibile, descritto dallo sguardo del fotografo che inquadra la realtà, invitandoci a leggerla attraverso i nostri occhi. Guardare una fotografia vuol dire intrecciare punti di vista diversi all’interno di un doppio sguardo che incrocia ottiche e percezioni autonome, grazie alla forza d’immagini dove l’autore sembra svanire per mostrare all’osservatore mondi liberi, aperti alle molteplici interpretazioni.

L’opera di Martine Franck si inscrive dentro la visione della fotografia concepita come confine da attraversare per posizionarsi in un altrove, dove l’artista rischia di smarrire la propria identità pur di approssimarsi all’altro e cercare il nucleo di una possibile verità. La fotografa, in una celebre dichiarazione, dirà: “la macchina fotografica in sé è una frontiera, un tipo di barriera che bisogna costantemente abbattere per potersi avvicinare in questo modo il più possibile al soggetto. Facendo questo, si rischia di oltrepassare i limiti; c’è un senso di rischio, di andare oltre, di diventare eccessivo, di voler essere invisibili. Passando dall’altra parte, puoi ritrovarti di là se ti dimentichi momentaneamente chi sei, se cerchi di essere il più ricettivo possibile verso gli altri…”. esserci per restituire la verità del soggetto, grazie al gesto coraggioso dell’abbandono di sé, è una posizione che implica la forte tendenza etica e la rigorosa ricerca di libertà. Sono valori connaturati a tutta la ricerca di Martine Franck, sia che si concentri sul paesaggio, restituito da una ricchezza formale e da una sapienza compositiva memori del suo apprendistato di studiosa di arti visive, sia che si soffermi sul fotogiornalismo umanistico, di cui è esponente di primo piano, sensibile e intransigente.

I suoi soggetti sono restituiti dalla forza espressiva della naturalezza che solo il dominio del mezzo permette di catturare. La lievità del tocco si esplicita in modo ammirevole soprattutto nel ritratto, arrivando a descrivere l’umano con un’essenzialità inscritta in volti, corpi e gesti mostrati dentro una luce che sembra trascendere la parola. I suoi lavori si concentrano sugli sguardi cercando di “vedere senza essere visto”, come ha segnalato Vera Feyder in uno scritto sulla fotografa. Indagare senza far prevalere la testimonianza, evitare il commento per accedere alla verità racchiusa nell’esistenza sono atti fondamentali che le sue immagini ci offrono come dono.

I ritratti di Martine Franck possono essere divisi tra soggetti che guardano direttamente verso la camera e quelli che distolgono lo sguardo verso uno spazio altro rispetto all’obiettivo. Nel primo caso, numericamente meno rilevante, il senso d’interrogazione si stempera in una familiare complicità, come nei celebri ritratti di Marc Chagall, Seamus Heaney e Jean Rostand; si colora di sagace e ilare ironia nel gesto esemplare della vecchia, ospite nell’ospizio d’Ivry, che mima con la mano un obiettivo in risposta alla possibile invadenza della fotografa; si tinge di curiosità impertinente nello sguardo fisso della bimba, mascherata con veletta e cappello per il carnevale a Basel in Svizzera; si riempie d’inquieta interrogazione in Miss Eveline Laliberté che imbraccia l’antica fotografia dei suoi genitori sicuramente defunti.

In molti altri ritratti i soggetti sfuggono all’obiettivo e lanciano lo sguardo verso altre direzioni con posture e accenni che esprimono malinconie, tensioni, fugaci e imprevisti interessi, senza mai abbandonarsi al senso infelice del distacco e del disinteresse. In queste immagini, Ariane Mnouchkine, celebre regista del Théâtre du soleil, sul cui lavoro Martine Franck ha realizzato documenti fotografici, è seduta sul palcoscenico in una posizione arroccata, alla ricerca di un’ispirazione che sembra cogliere in lontananza; Lilia Brick osserva fuori campo un possibile interlocutore nascosto, non una persona fisica, ma, forse, il ricordo indelebile del suo amore scomparso; Paul Strand imbraccia la sua ingombrante ed inseparabile macchina fotografica in uno splendido giardino e, sorpreso e allarmato, punta lo sguardo verso qualcosa che accade lì accanto; il pittore francese Balthus, adagiato su un divano, mentre un velo di malinconico abbandono si disegna sul suo volto, posa gli occhi su un gatto che accarezza con amabile affetto.

Non solo nei ritratti di personalità celebri, ma anche in molti scatti che ritraggono persone anonime, i soggetti sono ripresi dalla fotografa nel momento in cui osservano qualcosa che accade fuori dell’inquadratura. Tutto ciò conferisce alle sue immagini una forte componente narrativa, poichl’osservatore, dopo averle guardate e averne apprezzato la potenza descrittiva, la qualità estetica e l’equilibrio formale, sembra accedere in un altrove suggerito dagli sguardi che si proiettano lontano dal campo visivo. Tali suggestioni trasferiscono i dati del reale verso i fecondi territori delle congetture e delle intuizioni, evitando che le fotografie risultino semplici documenti, per diventare veicoli di possibili sogni.

Sono immagini che fanno pensare, come i ritratti di Martine Franck al suo compagno Henri Cartier-Bresson. In un celebre scatto il grande fotografo è ripreso in primo piano, di spalle, mentre in un piccolo specchio, al centro dell’immagine, si riflette il volto che guarda oltre una finestra dove si staglia un paesaggio cittadino. I due piani sono intervallati dalle mani di Bresson che mantengono un autoritratto appena disegnato, inanellando, in una prospettiva sincronica, elementi con i quali creare un piccolo, straordinario racconto su un geniale autore e sulla sua tentazione segreta: il disegno.

Una tentazione rivelata nelle immagini inedite presentate in catalogo, che descrivono, in sequenza, il fotografo francese mentre disegna al Museo di storia naturale di Parigi. Nella prima, Martine Franck ritrae Bresson tra due colossali zampe di un animale preistorico, concentrato sul foglio dal quale s’intravede una fitta trama di segni tracciati con mano sicura; nella successiva, lo fotografa in un momento di attesa, intento ad osservare, con sguardo tagliente e guardingo, il soggetto prescelto, che ignoriamo; nell’ultima, lo coglie nell’attimo in cui un gesto di sorpresa e di euforica eccitazione sembra scuotere il fotografo, rivelando una probabile ammirazione per il risultato raggiunto.

Nelle due ultime immagini irrompe di nuovo una narrazione che mette in campo elementi segreti: il soggetto preso a modello da Bresson a noi sconosciuto, e il gesto imprevisto che possiamo leggere come il compiaciuto risvolto di una tentazione appagata.

Offrire dimora al segreto e al possibile, mentre il fascino dell’altrove è liberamente interpretato da un mezzo incardinato all’evidenza del reale come la fotografia, è segno di coraggio e vitalità. Un atteggiamento che richiede la volontà di perseguire un’assoluta libertà, per far emergere, secondo le parole di Martine Franck, “la parte inattesa della realtà che costantemente ci sorprende, ci spiazza”.